Cronaca locale

Quando la ’ndrangheta voleva servire il caffè ai giudici del tribunale

Mentre va in tilt l’ufficio che autorizza i colloqui con i 160 arrestati si scopre che le cosche puntavano a rilevare il bar del Palazzaccio

Quando la ’ndrangheta 
voleva servire il caffè 
ai giudici del tribunale

Ce l’avevano quasi fatta. Gli uomini della ’ndrangheta in Lombardia erano arrivati ad un passo dal mettere a punto un colpo geniale: prendere in gestione il bar del Palazzo di giustizia di Milano, la buvette dove ogni giorni pubblici ministeri e giudici fanno colazione, pranzano, chiacchierano. Un punto d’osservazione formidabile. Certo, di segreti al bar non se ne raccontano (o almeno non si dovrebbe). Ma per tenere d’occhi magistrati e investigatori il grande bar al primo piano è un ottimo punto di partenza.
La storia del bar del Palazzaccio si scopre incrociando due documenti diversi: l’ordine di cattura, firmato dal giudice Giuseppe Gennari ed eseguito sette giorni fa, contro il boss Salvatore Strangio, i suoi complici e i suoi prestanome; l’altro sono gli articoli che un paio di cronisti curiosi avevano scritto alcuni anni fa, quando la gestione del bar - affidata per decenni a due fratelli milanesi, Luigi e Giovanni Cattaneo - era stata messa all’asta. A bandire la gara era stata l’Agenzia del demanio, proprietaria dell’intero stabile. E a vincerla - a sorpresa, sbaragliando la concorrenza persino del colosso Autogrill e Chef Italia - era stato un giovanotto leccese, il ventitreenne Salvatore Musarò. I cronisti avevano scoperto che Musarò nonostante la giovane età e le origini non ricche (il padre era un poliziotto, finito in galera per avere agevolato l’evasione di un paio di boss della Sacra Corona) era alla testa di una florida rete di attività commerciali nel settore della ristorazione. Capofila, un ristorante di corso Vittorio Emanuele, la "Corte Fiorita". Il giovane Musarò puntava in alto: a rilevare il "Grattacielo" di via Vittor Pisani, e persino il "Savini" in Galleria Vittorio Emanuele. E il bar del palazzo di giustizia.
Quando i cronisti avevano segnalato la stranezza dell’ascesa del giovane Musarò, l’Agenza del Demanio - che aveva spensieratamente assegnato l’appalto - ci aveva ripensato. Alla fine, la gara era stata rifatta, e Musarò era rimasto fuori. Insieme a lui, anche il suo socio, un quarantenne anche lui pugliese, e pure lui incensurato: Andrea Pavone. Dove prendevano, i due pugliesi senza storia, tutti quei soldi? La risposta arriva dalle carte dell’inchiesta di Ilda Boccassini. Che non parlano di Musarò, ma parlano - e abbondantemente - di Pavone: che altri non è che il prestanome di Salvatore Strangio, il capobastone che per conto dell ndrine di Platì e di Natile di Careri investiva nell’economia lombarda i capitali del narcotraffico. É Pavone a mettere la faccia da incensurato e il suo certificato penale immacolato negli affari dove entra Strangio. Quelli nell’edilizia e nel movimento terra, innanzitutto. Ma anche, come da vecchia tradizione della colonia milanese della ndrangheta, nella ristorazione. Dalla delusione per l’appalto del tribunale, Pavone si rifarà creando quello che sarà a lungo il fiore all’occhiello del clan, il ristorante «Stella Marina» di via De Amicis 44, che sarà utilizzato anche come base per summit e trattative, e finito sotto sequestro nella grande retata di martedì scorso.
La retata nel frattempo sta avendo, proprio a causa delle sue dimensioni eccezioni, un imprevisto effetto collaterale: il collasso dell’Ufficio permessi di colloquio, presso la Procura. L’ufficio, che già nei giorni normali opera in condizioni precarie, ieri è stato preso d’assalto dai parenti dei 160 arrestati nel versante milanese del blitz, in cerca di un’autorizzazione per incontrare i loro cari.

Per mantenere l’ordine sono dovuti intervenire i carabinieri.

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