Quando Pio XII difese i riti ebraici

Nel 1938 il futuro Pontefice criticò la legge polacca che impediva la macellazione tradizionale. Alla nunziatura di Varsavia scrisse di "vera persecuzione" da parte del governo

Quando Pio XII difese i riti ebraici

Roma - Riemerge dagli archivi un nuovo documento che contribuisce a smontare l’infondata «leggenda nera» sul presunto antisemitismo di Pio XII. Nel 1938, meno di un anno prima di essere eletto Pontefice, l’allora cardinale Segretario di Stato Eugenio Pacelli intervenne presso la nunziatura di Varsavia nel tentativo di bloccare una legge che proibiva la macellazione rituale dei capi di bestiame secondo l’usanza ebraica, giudicandola persecutoria. L’intervento venne suggerito dal cardinale francese Eugène Tisserant, che aveva appreso da un giornale della nuova normativa.

La lettera, inedita e originale, accompagnata da una copia del rapporto del nunzio apostolico, si trova nell’archivio dell’Associazione amici del cardinale Tisserant, custodito da una nipote del porporato in un paesino dei Pirenei a pochi chilometri dal confine con la Spagna. È l’ennesimo tassello che, insieme a molti altri documenti scoperti negli ultimi anni, dimostra l’assenza in Pacelli non solo di qualsiasi traccia di antisemitismo, maanche del tradizionale antigiudaismo cristiano e cattolico.

Questi i fatti. Il cardinale Tisserant, studioso francese stimato da Pio XI, Segretario della Congregazione delle Chiese orientali, creato cardinale nel 1936 e consacrato vescovo l’anno successivo proprio da Pacelli, grande personalità della Curia romana e futuro decano del collegio cardinalizio, il 6 aprile 1938 scrive al Segretario di Stato per chiedergli notizie della legge discriminatoria polacca, sollecitando un intervento della Santa Sede. Vale la pena di notare che, in questo caso specifico, ci troviamo di fronte a una norma vessatoria, volta a impedire la libertà di culto degli ebrei (una legge simile era stata introdotta nella Germania nazista subito dopo la presa del potere da parte di Hitler, nell’aprile 1933, preceduta dalle norme discriminatorie che escludevano gli ebrei dai pubblici uffici e dalla professione medica e legale), ma certamente secondaria se paragonata alla tragedia che stava per abbattersi sui figli di Israele.

Pacelli non attende e prende sul serio la segnalazione, investendo immediatamente del problemail nunzio apostolico a Varsavia, l’arcivescovo Filippo Cortesi, facendogli notare come sia da c o n d a n n a r e «ogni atto di persecuzione o di violenza antisemitica » e chiedendogli di intervenire. Il nunzio risponde con un rapporto (n. 89) datato 7 maggio, definendo «inesatta » la notizia riportata dai giornali, in quanto la legge esiste sì, maè stata approvata solo da un ramo del Parlamento, ed è stata poi lasciata cadere. «Tale legge fu bensì discussa ed approvata dalla Camera dei Deputati», scrive Cortesi nella sua risposta, «ma venne aggiornata al Senato e sembra non sarà ripresa. Essa per altro aveva in mira di sopprimere il quasi monopolio della vendita delle carni che gli israeliti esercitano, macellando oltre le esigenze dell’osservanza rituale». Il nunzio continua:«Come giustamente osserva l’Eminenza Vostra, è da condannarsi ogni atto di persecuzione o di violenza antisemitica».

Ma Cortesi aggiunge al tempo stesso qualche sua considerazione sulla situazione polacca in qualche modo giustificando il provvedimento – che mirava a «sopprimere il quasi monopolio della vendita delle carni che gli israeliti esercitano, macellando oltre le esigenze dell’osservanza rituale » – con l’«opportunità tendente a limitare l’eccessiva influenza dell’elemento giudaico... nemico secolare della Chiesa e dell’ordine sociale cristiano». Risuonano in queste righe tracce dell’antico antigiudaismo cristiano, che invece non riscontriamo nel cardinale Pacelli.

Quest’ultimo, non appena ricevuta la risposta del nunzio, si affretta a scrivere a Tisserant per informarlo sull’iter di quella legge che proibendo la macellazione per giugulamento «imposta agli israeliti dai loro precetti religiosi», «costituirebbe per gli ebrei una vera persecuzione». Egli trasmette copia del rapporto proveniente da Varsavia.

Va ricordato che fin dagli anni del liceo, Eugenio Pacelli aveva stabilito solidi legami d’amicizia con uncompagno, Guido Mendes, appartenente alla comunità ebraica di Roma, la cui famiglia emigrerà dall’Italia in Svizzera all’indomani dell’entrata in vigore delle leggi razziali grazie all’aiuto del cardinale Pacelli. Sarà lo stesso Mendes a testimoniarlo in un’intervista al Jerusalem Post, dopo la morte di Pio XII: «Pacelli è stato il primo Papa che ha condiviso, negli anni della sua giovinezza, una cena dello Shabbat in una casa ebraica e che ha discusso informalmente di teologia ebraica con eminenti membri della comunità di Roma». Mendes ricorda che visitava casa Pacelli e che Eugenio visitava casa sua, e che «scambiavano tra loro quelli che erano i loro interessi e i loro ideali».

Nonostante queste testimonianze, che si assommano alla mole di quelle già ampiamente note, comprese le tante, tantissime attestazioni di gratitudine provenienti da autorità ebraiche per l’opera che il Vaticano e più in generale la Chiesa cattolica mise in atto per salvare gli ebrei, la fotografia di Pio XII continua a

essere esposta nei rinnovati padiglioni del museo dello Yad Vashem di Gerusalemme, nel settore dedicato ai capi di Stato antisemiti. Una decisione contro la quale la Santa Sede ha ufficialmente protestato, fino a oggi invano.

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