Quando a prendere il tè nel deserto erano i repubblichini in fuga dall’Europa

Perdersi a Tangeri, spinti sulla costa africana come relitti sballottati dalla marea, allontanati dall’Europa dal furore delle onde della storia. E poi accolti da una piccola comunità di esuli, di diversi, che hanno scelto di vivere ai confini del mondo, in un non luogo. Un piccolo limbo adatto alla filosofia e al rimpianto, all’amore che brucia l’anima e il corpo (tanto il resto dell’esistenza è stato già bruciato).
Questo è quello che si trova nel romanzo postumo di Carlo Mazzantini L’italiano di Tangeri (Marsilio, pagg. 250 euro 18), il racconto di una vita solare ma triste, libera ma dispersa. E verrebbe quasi voglia, banalizzando all’estremo, di considerarlo una versione italiana de Il tè nel deserto (guarda caso l’autore Paul Bowles è morto proprio a Tangeri) o, essendo molto irriverenti, un Marrakech express «ante litteram». Eppure se questo romanzo di Mazzantini, bello di una bellezza incompiuta e un po’ onirica, vive di Africa, del calor bianco che rende ogni cosa ferocemente viva, c’è anche qualcosa che lo rende un unicum.
Carlo Mazzantini (1925-2006), infatti, è stato uno scrittore speciale, per rabbia, destino e talento. È stato il primo in Italia ha raccontare davvero i ragazzi della parte sbagliata, quelli che a Salò non si videro rubare solo la vita ma anche l’onore. Nei suoi libri con cuore e coraggio, senza rimpianti ma senza voltavaccia o conversioni di maniera, ha fatto rivivere coloro che andarono a Cercar la bella morte (Mondadori nel 1986 e poi Marsilio) sotto le bandiere della Rsi. E sul tema è tornato tante volte, con penne abile e struggente, come in I Balilla andarono a Salò e L’ultimo repubblichino.
Ecco, per certi versi, questo strano viaggio iniziatico e sapienziale che è L’italiano di Tangeri, è la continuazione ideale di quei romanzi, dove l’approdo in Marocco segna una sorta di ritorno alla vita, un passaggio in purgatorio per ritrovare la dignità e il senso dell’esistenza. E se al centro della vicenda vediamo un giovane scrittore italiano espulso dalla Spagna che assieme alla sua compagna, irlandese e incinta, approda, senza il becco di un quattrino, in una città (caotica riarsa e piena di hashish) sullo sfondo vediamo l’umanità dolente dei vinti. Un capitano tedesco di U-boot che ormai si sente senza patria e odia ogni guerra, repubblichini in fuga, esuli russi pieni di mesta dignità che pensano che l’apocalisse sia iniziata con la rivoluzione bolscevica, apolidi in fuga per il mondo che, armati di filosofia, riflettono sulla fine della religione e la debolezza della modernità... E a cucire le due vicende tra loro anche la passione sbagliata, e incontenibile, per Marisol donna bellissima e sfortunata che balla con la morte senza ancora saperlo.


E in questo maelstrom levantino (Mazzantini a Tangeri, al liceo, ci insegnò per davvero mentre girovagava lontano da un’Italia ostile) trovare un riscatto una scintilla nuova - che si tratti di un figlio, di una nuova fede o semplicemente di una vecchia goletta rimessa in mare per fuggire via lontano poco importa - non è semplice ne scontato. Qualcuno però ce la fece, come Mazzantini. Inseguendo la vita, anche se imperfetta e incomprensibile come il sole d’Africa, e non più bella morte.

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