Quando Russell disse che Hitler è figlio di Rousseau

Caro dott. Granzotto, nella «Storia della filosofia occidentale» di Bertrand Russell, leggo che «Hitler è una conseguenza di Rousseau, Roosevelt e Churchill di Locke». Vuole essere così cortese di illuminarmi meglio al riguardo?
Roma

Eh, caro Sforza, con quella lapidaria sentenza il grande Bertrand Russell (idolo dei pacifisti, ma che sosteneva la necessità di un attacco nucleare contro l’Unione Sovietica, per dirne una) mise il dito sulla piaga. Ancora aperta, per quanto ci riguarda. Il punto è che al contrario del continente, in Inghilterra - e successivamente negli Stati Uniti - nessuno s’è mai fatto incantare dalle idee. L’Inghilterra ha avuto la sua Rivoluzione (la «Glorious revolution» del 1688), ha avuto il suo Re decollato (Carlo I Stuart), ha avuto il suo Illuminismo (che lì si chiamò empirismo), ha avuto quello che ebbe in seguito l’Europa, senza però che il rinnovamento politico, sociale e culturale fosse accompagnato dallo tsunami ideologico e dagli eccessi che nel continente hanno sempre accompagnato il movimento di idee. La lezione di Locke è molto semplice: essendo per natura gli uomini tutti liberi, uguali e indipendenti, non uno può essere privato della sua proprietà - rappresentata dalla vita, dai suoi beni, dalla sua libertà - ed essere sottoposto al potere di un’altra persona senza il suo consenso. L’armonia civile, scriveva Locke, risiede nell’ordine liberamente accettato. Un principio fatto proprio dalle colonie americane la cui indipendenza seguì la richiesta di beneficiare di quei diritti, formulati da Locke, che la Corona aveva da tempo concesso ai propri sudditi.
La cultura politica dell’Europa continentale è invece sempre stata soggiogata dalle idee e quelle che più tennero (e tengono ancora) banco rampollarono dal pensiero di quel feticista, esibizionista, padre degenere e snaturato di Jean-Jacques Rousseau. Che al solo scriverne il nome mi prudono le mani, caro Sforza, perché se mai ci fu un cattivo maestro, ebbene fu lui: l’inventore dello Stato etico, della «religione civile» che stritola i cittadini chiusi nella morsa della moralità pubblica o di quella «volontà generale» che rappresentò l’arma di distruzione di massa del giacobinismo (l’individuo, che di per sé non conta niente, meno di zero, è libero quando la sua volontà si conforma a quella assoluta, «generale». Che non si sa bene cosa sia, ma della quale si fa interprete il Saint-Just o il Saint-Justino di turno chiamandola poi con nomi diversi a seconda della bisogna: salut publique, salvezza pubblica, bene comune, interesse collettivo, sol dell’avvenir, emergenza democratica, storia...).
Se dunque Locke afferma la libertà individuale contro il dispotismo dello Stato (e il conformismo della massa) e pertanto spetta al singolo individuo il compito di cercare la propria felicità dove crede più opportuno, Rousseau annichilisce l’individuo il quale deve uniformarsi - con le buone o con le cattive - a una dispotica volontà generale che impone il sacrificio del presente per ipotetici futuri paradisi. Ideologia, questa, che costituì il propellente ideologico della rivoluzione francese, del giacobinismo e delle guerre napoleoniche e che in seguito fornì a Hitler, così come a Mussolini, a Lenin e a Franco (il dispotismo prospera solo dove ha attecchito il rousseauismo, di qua dalla Manica) lo strumento per imporre lo Stato totalitario.

Ideologia che ancor oggi alligna in quella sinistra che ritenendosi «antropologicamente diversa» è convinta di possedere le chiavi del vero, del giusto e del buono. Di interpretare, cioè, la «volontà generale» e dunque d’avere il diritto se non proprio il dovere di domesticare le masse (noi).

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