Quando si giocava al lotto sul lavoro del boia

Quando si giocava al lotto sul lavoro del boia

Continua la nostra ricerca storica sui modi di esercitare la giustizia a Genova nei secoli passati. E dopo aver parlato dei luoghi di detenzione e di giudizio occorre passare ai modi di infliggere la pena, che richiedevano un particolare cerimoniale. Il patibolo, che veniva eretto il giorno prima dell'impiccagione, era formato da tre pali, due piantati in verticale ed uno sovrapposto in orizzontale, simile ad una delle porte del gioco del calcio. Al palo orizzontale venivano appoggiate due scale: una che arrivava appena alla traversa, ed un'altra che invece la superava di parecchio, per consentire al boia di salirvi sopra ed esercitare fino in fondo le proprie mansioni.
Dopo la pubblica lettura della sentenza di condanna da parte di un rappresentante dell'Autorità giudiziaria, il morituro, legato in tutto il corpo, veniva portato, talvolta a piedi, ma di solito su un carretto, fin sotto la forca. Qui poteva pronunciare le sue ultime parole ed eventualmente ricevere gli ultimi conforti religiosi, dopodiché (in genere dopo un'abbondante bevuta di acquavite) gli veniva posto un sacco sul capo e veniva fatto salire sulla scala corta. Il Boia gli poneva il cappio al collo, assicurandone l'altro capo ad un piolo in ferro, infisso nel palo orizzontale, poi, con un movimento deciso, spingeva il condannato giù dalla scala e saliva rapidamente sulla propria, arrampicandosi sulla traversa, per poter flettere con forza con un piede la testa del condannato su una spalla, spezzandogli così le vertebre cervicali. Contemporaneamente, per agevolarne il compito, l'assistente si aggrappava con tutto il suo peso alle gambe dell'impiccato: tecnicamente, questa mansione aveva il nome di «tirapiedi», che poi è stato esteso, nel parlare comune, a tutte le figure di assistenti di basso rango.
L'incarico di carnefice, tenuto conto dell'evolversi del concetto di giustizia e di pena, doveva essere svolto con efficienza e limitando le sofferenze del condannato. Veniva quindi affidato e veri e propri professionisti. Il Boia più noto di quegli anni, sul quale esiste anche una discreta letteratura, è Piero Pantoni, di Reggio Emilia.
Il condannato alla forca stava rinchiuso nelle Carceri di Sant'Andrea, che sorgevano sul Colle di Morcento e coprivano l'area oggi occupata dal Palazzo della Borsa e dalla Banca d'italia. Prima di essere destinato a carcere, l'immobile era stato, fino al 1814, un convento di suore, al quale vennero apportate ben poche modifiche: l'unica variante evidente furono le robuste inferriate apposte alle finestre. L'infermeria del carcere era quindi talmente poco sicura che, quando vi si doveva ricoverare qualche persona giudicata pericolosa, occorreva ricorrere all'uso del «preservativo», cioè una catena da galeotto che era da una parte assicurata al muro e dall'altra alla caviglia del detenuto.
Le modalità di esecuzione della pena non differivano di molto da quelle generali già riportate sopra. Il Boia e il suo tirapiedi giungevano a Genova il giorno della vigilia e si fermavano a Rivarolo, ospiti del becchino di quel Comune (a riprova delle difficoltà esistenti a trovare una sistemazione comune per tutte le parti coinvolte nel dramma, come in teoria si sarebbe dovuto). Il condannato, nel frattempo, era stato sistemato in una stanza con tre giacigli, una brocca d'acqua ed un vaso per le funzioni corporali. Sopra il capezzale era fissato il «preservativo» che assicurava la caviglia del prigioniero al muro. Nei giacigli aggiunti potevano prendere posto due carcerati condannati a pene minori, per dare assistenza al morituro. Nel momento in cui, essendo anche state respinte le eventuali domande di grazia presentate alla Suprema Magistratura, la data dell'esecuzione diveniva certa, il condannato veniva trasferito nel Confortatorio, dove veniva raggiunto dal Boia, che gli rivolgeva poche parole di sostegno e soprattutto provvedeva a prepararlo per l'esecuzione, legandolo in modo tale da impedirgli quasi ogni movimento. Tutto ciò, in presenza anche dei Confratelli della Misericordia che avevano già iniziato ad attivarsi dal momento in cui la data dell'esecuzione era stata resa nota.
A questo punto, finita la messa funebre celebrata nel Confortatorio, i Confratelli escono e mentre una parte di loro con un sacerdote si reca al Molo vecchio recando con sé una bara coperta per prepararsi alla sepoltura dell'impiccato, altri restano, insieme ai guardiani e ad altri ecclesiastici, presso il condannato. Questi indossa, sopra la legatura, i brachelloni e la casacca della Misericordia, di un colore giallastro, e babbucce di vacchetta bianca. Lo affiancano il Confessore e una altro sacerdote della Misericordia. Seguono il boia e il tirapiedi, poi altri confratelli.
Il corteo, che è aperto e chiuso dalle Guardie, si muove per la discesa del Prione, piazza delle Erbe, San Donato e Via di San Bernardo. Traversata la piazza del Molo (oggi piazza Cavour) e percorsa a metà la strada del Molo, si fermano davanti alla chiesa di San Marco, dalla cui porta il Rettore della chiesa impartisce la benedizione alzando tre volte l'Ostensorio. Quindi il gruppo si rimette in moto e varca la porta del Molo, che viene chiusa per impedire l'accesso alla folla di curiosi. Il Boia estrae il capestro. Il Sacerdote dà gli ultimi conforti. Il condannato pronuncia le sue ultime parole. Poi il Boia ed il suo assistente procedono all'esecuzione. La Compagnia della Misericordia penserà alla sepoltura.
E veniamo quindi al ruolo della Compagnia. Come anticipato, la ricostruzione puntuale dei comportamenti tenuti dai Confratelli in occasione delle esecuzioni è possibile grazie agli Statuti conservati e pubblicati di recente. E' importante sottolineare come il ruolo di queste persone fosse importante non solo per la funzione di assistenza al condannato, ma anche per contribuire a far partecipare il pubblico alle esecuzioni in forme più civili di quelle che rischiavano di verificarsi. La naturale propensione della folla a partecipare ad esperienze di questo tipo scatenando i propri peggiori istinti è ben nota. Ne sono un classico esempio le tricqueteuses che passavano la giornata sotto la ghigliottina ai tempi della Rivoluzione francese, ma altri esempi di voyeurs anche più feroci ed inumani non sono rari. Si può immaginare che un «reality show» sulla pena di morte avrebbe tutt'oggi un pubblico numeroso. Del resto, già il fatto che a Genova, in occasione delle esecuzioni, si scatenasse la caccia ai numeri del lotto, la dice lunga circa lo spirito con cui la gente viveva l'evento. Per chi fosse interessato, i numeri di solito erano: gli anni del condannato, il giorno dell'esecuzione, il 44 (il carcerato) e il 41 (l'impiccato). Ciò posto, la collaborazione tra l'Amministrazione della Giustizia e le Misericordie in circostanze come queste, al di là di altre valutazioni che non è nostro interesse sviluppare qui, aveva quanto meno questo aspetto positivo: che i Confratelli, con il loro comportamento, aiutavano la popolazione a capire la drammaticità dell'evento ed a valutarlo con la dovuta serietà. Vediamo.
Oggi per Confraternita si intende un insieme di laici, legati da uno statuto, che si propone di sviluppare particolari aspetti devozionali ma, fino alla fine del 1800, la Confraternita o Compagnia comprendeva anche funzioni diverse, di opera pia e di società di mutuo soccorso, quindi con un ruolo sociale e pubblico assai più rilevante.
Le prime confraternite si formarono verso il XIII secolo insieme ai primi movimenti penitenziali dei flagellanti, che crebbero nel terrore millenarista della peste. Successivamente, dal XV secolo in poi, modificarono significativamente la propria natura, rivolgendosi non più tanto alla purificazione di sé stessi attraverso esercizi di autopunizione, quanto all'aiuto diretto ad alleviare la sofferenza del prossimo.
In questo clima rinnovato, nasce a Genova nella seconda metà del 1400 la Compagnia della Misericordia, riprendendo localmente l'esperienza analoga delle Misericordie già sviluppata a Firenze e poi in altre località toscane a partire dal 1240. Compito di queste era quello di dare assistenza ai carcerati, seppellire i defunti e accompagnare i condannati «alla giustizia», cioè alla morte. La funzione di tale «accompagnamento» era quella di salvare l'anima del condannato, aiutandolo a capire che anche il peccatore pentito all'ultimo minuto può aver immediato accesso al Paradiso, così come era accaduto al ladrone convertitosi sulla croce accanto a Gesù. A questo scopo venivano utilizzate tavolette dipinte con esempi e storie edificanti, che dovevano aiutare le compagnie nella loro opera di convincimento. Allo stesso scopo servivano i Confortatori, testi predisposti dalle Compagnie per facilitare il ravvedimento del condannato.
Il governo della Compagnia spettava ad un Priore eletto annualmente, insieme al Consiglio, composto dal Priore dell'anno precedente, dai tre confratelli che avevano avuto il maggior numero di voti e, di diritto, dal sacerdote più anziano. Questi nominavano una serie di coadiuvanti: il sindaco (contabile e segretario), due visitatori (controllo delle carceri a Natale e Pasqua), tre massari (custodia della sede e degli oggetti di proprietà della Compagnia), due sacrestani (per tenere in ordine l'oratorio e preparare l'altare) e due informatori per avvisare i confratelli della prossima esecuzione, cui venivano affiancati altri due per avvisare i monasteri (a fine di preghiera). Va aggiunto che, anche in rapporto a complesse esigenze di privacy legate alle modalità di reclutamento degli associati -soprattutto nei primi periodi di vita della Confraternita, di ceto elevato- e per evitare strumentalizzazioni dei ruoli e delle opere svolte, normalmente i confratelli erano «coperti», cioè il loro nome era conosciuto solo da quegli incaricati della Confraternita che necessitavano di questa informazione per poter svolgere il loro compito. Erano «scoperti» i titolari di alcune cariche (ad esempio il Priore) ed una parte dei sacerdoti associati (tra questi era sempre prescelto chi doveva portare i primi conforti al giustiziando nel momento in cui la procedura veniva attivata)
Con l'annuncio dell'esecuzione dato dagli informatori al Priore, che a sua volta allertava uno dei sacerdoti scoperti aderenti alla Confraternita perché recasse un primo conforto al condannato e ne raccogliesse la confessione, si riuniva la mobba, che, secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana edito a Torino nel 1986, è termine medioevale che indica una associazione di persone e deriverebbe da un latino volgare Motta/Mutta, a sua volta derivante dall'onomatopeico Mut «sporgenza, ammasso» (da cui «smottamento», che poi ritroviamo anche nel dialetto genovese nella parola «motto» -mucchio- e nell'espressione «bello mottin» - bel mucchietto, bel cosino, riferito a bambini-). Questa mobba costituiva la compagnia della notte formata dal gruppo di confratelli destinati ad assistere il condannato. Si trattava di sei persone scelte mese per mese dal Priore insieme al Consiglio, incaricate di vegliare presso il carcerato dall'Ave Maria del giorno precedente l'esecuzione fino al momento della morte, affiancandolo durante tre turni. Avvisati per tempo, il giorno innanzi, dagli stessi informatori (che, in ragione del loro compito, dovevano conoscerne i nomi, malgrado il generale principio di segretezza), i sei prescelti dovevano prepararsi spiritualmente, anche confessandosi e comunicandosi, e poi riunirsi nell'Oratorio della Confraternita. Qui avrebbero dovuto venire anche altri aderenti alla Misericordia, per garantire eventuali supplenze che si rendessero necessarie a causa dell'assenza di qualcuno dei sei prescelti. I due componenti della mobba del primo turno si vestivano dell'abito apposito (una cappa o camice bianco di tela con il cappuccio staccato e con l'immagine della pietà sulla spalla destra, cinto di un cordone di filo bianco da cui pendeva una corona anch'essa di legno bianco e un paio di scarponcini bianchi con calze nere; il tutto coperto da un mantello o da un cappello, ugualmente bianchi, in caso di freddo o pioggia) e poi recarsi alla prigione, portando con sé un crocefisso, tavolette dipinte con le storie dei martiri ed il libro del Confortatorio. Alla mezzanotte sopravveniva dall'oratorio, con le medesime modalità, la seconda coppia di mobba, la quale rilevava la prima -che tornava all'oratorio- proseguendo nell'opera di consolazione. La mattina «a buon'ora» giungeva la terza coppia di mobba con le stesse modalità delle altre due, ma con alcune significative differenze, giacché a questa spettava di seguire il condannato fino alla fine.
La prima differenza era che di quest'ultima mobba faceva sempre parte un sacerdote. La seconda era che insieme alla coppia di confratelli si presentava al carcere anche il Padre Priore, per consolare anche lui brevemente il morituro, ma soprattutto per sapere se c'erano eventuali problemi o incombenze (ad esempio in rapporto alla scelta di un particolare luogo di sepoltura da parte del prigioniero); svolti tali compiti tornava all'oratorio insieme ai due componenti della seconda mobba.
Per dare un'idea degli argomenti utilizzati per indurre il condannato ad accettare la propria sorte, un esempio di approccio seguito dai consolatori è il seguente: «Fratello mio, pensa che son den ese queli de vita eterna» (pensa che suoni debbono essere quelli dell'al di là). Con queste parole inizia la storia di un santo eremita che non si accorse del passare dei secoli, preso dai suoni provenienti dal paradiso.
Successivamente, all'ora di terza, lo stesso sacerdote che era stato inviato appena giunta la notizia dell'esecuzione ritornava a trovare il prigioniero e procedeva ad un ulteriore esame confessorio con assoluzione e comunione, oltre alla celebrazione di una messa per la sua anima. Da notare l'attenzione portata a certi particolari: le disposizioni statutarie raccomandano che tra l'ingestione dell'ostia e l'impiccagione vi sia un lasso di tempo sufficiente a consentire la digestione di quanto ingerito (e quindi, sembra di capire, il perfezionamento dell'operazione sacramentale).
A questo punto seguiva per il condannato una leggera colazione, mentre all'oratorio tredici confratelli scelti dal priore si preparavano per accompagnare in processione al patibolo il prigioniero.
A proposito della terza coppia di mobba lo statuto detta in modo chiaro un principio che evidentemente deve valere anche per le precedenti ma che, tenuto conto della particolarità del momento, si è evidentemente ritenuto necessario richiamare in modo esplicito, e cioè che, posto che i giustiziandi sono soliti tentare di avere una qualche concessione, o rispetto al modo di morire o anche allo scopo di procrastinare il momento dell'esecuzione, i confratelli che terranno loro compagnia dovranno occuparsi esclusivamente della salvezza dell'anima di queste persone, lasciando tutto il resto al potere amministrativo.
Nel frattempo, all'oratorio, i tredici confratelli che sono stati prescelti dal Priore tra tutti i convenuti al suono della campana di giustizia, si sono vestiti col solito abito e preparati: uno di loro sarà il portatore del crocefisso, un altro dell'acqua benedetta e gli altri prenderanno delle piccole croci ed insieme, in fila per due preceduti dal crocefisso e sempre recitando salmi ed orazioni, dovranno andare ad attendere il condannato all'uscita dalla prigione, per accompagnarlo in pubblica processione al luogo dell'esecuzione (sito in un primo tempo a Castelletto e poi a Codefà (Capodifaro), cioè al Molo vecchio.
Giunti al luogo dell’esecuzione, i confratelli si inginocchiavano continuando a pregare. Il sacerdote facente parte dell'ultima coppia di mobba dava al condannato l'ultima assoluzione e gli stava accanto fino all'avvenuto trapasso, al momento del quale veniva invocato il nome di Gesù e di Maria e veniva posta al collo del defunto una delle Croci fatte a questo scopo, che veniva poi recuperata all'atto della sepoltura. Seguiva il ritorno dei confratelli all'oratorio, con la stessa formazione e le stesse modalità dell'andata, e recita finale del De Profundis.
La sepoltura dell'impiccato avviene nel «dopo desinare». Tredici confratelli devono riunirsi all'oratorio all'ora fissata dal Priore, vestirsi dell'abito consueto e recarsi in processione al luogo dell'esecuzione recando con sé il cataletto della Compagnia, il Crocefisso e i «Cerrioti» (candele). Giunti presso il cadavere, questo verrà posto sul cataletto, i lumi verranno accesi e la processione si dirigerà verso la Chiesa più vicina, il cui responsabile sarà stato tempestivamente avvisato, ove si procederà alla sepoltura.
Se richiesto dal condannato, la Chiesa ove procedere alla sepoltura poteva essere diversa dalla più vicina, purché entro le mura della città o almeno non troppo distante da questa. Se poi il giustiziato era membro di qualche Compagnia e ciò gli dava diritto a particolari riti funebri, il cadavere veniva trasportato nella Chiesa più vicina al luogo dell'esecuzione e qui consegnato ai membri della Compagnia interessata.
Tutta la procedura descritta valeva per le esecuzioni fatte in città.

Nel caso che queste avvenissero invece fuori città (soprattutto nelle valli del Bisagno e del Polcevera), per evitare le complicazioni legate ai trasferimenti notturni, anche tenuto conto che a una cert'ora le porte della città chiudevano, le mobbe erano solo due: una che assisteva il condannato dalla sera alla mattina ed un'altra che le dava il cambio dopo la riapertura delle porte e seguiva il condannato fino alla fine.
(2 - fine)

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