Quando tentò il suicidio: «Vogliono annientarmi»

Nel 1995, dopo le accuse in aula dell’ottavo pentito, Contrada fu ricoverato e provò a uccidersi con una siringa

Lino Jannuzzi Il giorno più lungo di questo processo che dura da 14 anni fu il 13 luglio del 1995. Bruno Contrada, il più famoso poliziotto di Palermo, era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del '92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era iniziato da più di un anno e Contrada era ricomparso dinanzi alle telecamere nell'aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma: «Si è presentato in tribunale con la sua consueta eleganza - così avevano scritto i giornali - ma fiaccato crudelmente nel fisico. La bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ad arte ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella forte e quadrata. Il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il “phisique du rôle”, trasformato in un vecchio, in uno spettro...». Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa per chiedere al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», a quel punto sarà stato l'ottavo o il nono «pentito» che spuntava improvvisamente ad accusare Contrada.
È stato un attimo, il pm aveva appena finito di parlare e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, forse per protestare, e si è invece accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso. Il presidente ha gridato: «L'udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Gli avvocati si sbracciavano invocando un medico. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento, e tentava di rianimarlo bocca a bocca. Lo trasportarono con l'ambulanza al reparto rianimazione dell'ospedale civico, lo infilarono in un letto e gli praticarono le prime cure. Quando ha riaperto gli occhi, ha gridato: «Vogliono annientarmi». Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere che lo vegliava, ha strappato dalle mani del medico la siringa infilandosela nella gola...
È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta dell'ospedale, ha urlato. C'erano le telecamere accese e l'urlo si è sentito in diretta nei telegiornali: «Caino, sia maledetto Caino...». «Caino - ha spiegato ai giornalisti che le si sono affollati d'intorno la signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada - è un collega di mio marito... È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera... È qualcuno che ha capito che la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera... Quando mio marito e Boris Giuliano lottavano veramente contro la mafia, c'è stato qualcuno che ha intuito che da qui, in Sicilia, poteva raccogliere gloria e potere... Bastava usare la Sicilia e l'antimafia come uno sgabello e salirci sopra... Ma non ha trovato il campo libero perché c'era Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli... Doveva eliminarlo... Questo Caino era in grado di sfornare contro mio marito un “pentito” al giorno... e lo fa ancora...».
Sono passati più di dieci anni da quel giorno e più di quattordici dall'arresto di Contrada. Contrada è stato condannato in primo grado e assolto in appello, la Cassazione ha annullato l'appello, il secondo appello è finito, altri «pentiti» tra un appello e l'altro, sfornati a comando, si sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno, sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbale, ma niente più ha spiegato meglio le origini e le ragioni di questo assurdo processo come quel grido di donna al capezzale del marito che si voleva suicidare: «Caino, sia maledetto Caino...».
Lo stesso Contrada lo ha ribadito dieci anni dopo, nell'ultima intervista rilasciata prima dell'ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dipendenze delle procure antimafia e che non gradiva il fatto che io mi ero impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile dove lavoravo, dedicata specificamente a Cosa Nostra. E la Dia si è specializzata nella gestione di determinati “pentiti”, quelli che sono serviti ad accusarmi, e ad accusare non solo me... Ma, più che i “pentiti”, a farmi male sono stati alcuni personaggi dell'amministrazione in cui ho prestato servizio, alcuni colleghi che per carriera o per altro hanno approfittato dell'occasione e hanno contribuito a distruggermi...».
E fior di testimoni insospettabili, che hanno tentato inutilmente di difendere Contrada, lo hanno confermato a più riprese. Come l'ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che ha così deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo ed egli ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafioso, di cui è una memoria storica eccezionale, e per questo ha ricevuto 33 elogi dall'amministrazione e dalla magistratura... Bisogna far luce su eventuali interessi e su eventuali corvi che hanno ispirato ai “pentiti” le dichiarazioni contro Contrada.

È quantomeno strano che soltanto dieci anni dopo vengano rivelati fatti di cui i “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo da chi ha voluto ispirarli. Perché i “pentiti” parlano solo ora, e chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia...».

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