Dormono fuori casa, questa sera, alcune amiche che mi hanno per tanti anni aspettato pazientemente, immobili, ironiche, fedeli, anche quando i tempi per i miei rientri si sono fatti sempre più lunghi. E loro, sempre certe che io sarei alla fine tornato a osservarle, ad accarezzarle, hanno ancora pazientemente aspettato. In qualunque stagione, a qualunque ora, serene nell’attesa.
Questa sera sono rientrato e alcune di loro, le più grandi, erano fuori. Dorme fuori Aida con la sua bella faccia forte e insolente; dorme fuori Velia che ha scelto, per riposare, un albero diverso, e continua a stringersi fra le braccia, amando soprattutto se stessa; dorme fuori Maria Teresa che già dormiva qui in casa chiusa nel suo sogno di bambina; dorme fuori anche l’amica pensosa che teneva sempre la testa poggiata sulle mani perduta in un suo pensiero lontano; e dorme fuori l’Ughetta che era arrivata da poco, appena finiti i giochi nel cortile di casa sua. Tante amiche non ho trovato questa sera e anche amici, sempre presenti e silenti, mai distratti, mai perplessi, mai scettici. Certo, a casa ancora molti ne restano e sono abbastanza per non sentirsi soli e per non farmi sentire troppo la mancanza degli altri.
Ma chi sono Aida, l’Ughetta, Velia e gli altri amici e compagni? La casa qui in campagna, a Ro, è grande e soprattutto affollata di persone e di cose. Di persone che passano e che, talvolta, esistono meno di cose; e di cose che restano, e, spesso, esistono più delle persone. Le incontro e le confondo, le scambio e le sovrappongo, le faccio incontrare e le faccio parlare. Mi rendono gradito il ritorno, mi fanno pensare, quando sono lontano, alle buone ragioni che ho per ritornare.
È questo, d’altra parte, come alcuni di noi hanno imparato a scuola, il senso, l’etimologia, della parola nostalgia: nòstos-ritorno, algìa-dolore. Letteralmente, «sofferenza per il desiderio del ritorno». E accade che sia propriamente sofferenza. Più frequentemente è un’ansia leggera, una rassegnata insofferenza, una sensazione di inappartenenza che proviamo in alcuni luoghi e che ci fanno desiderare il nostro, la nostra casa, la nostra terra, e, per noi padani, il nostro fiume. Retorica nelle parole? Retorica negli affetti?
Forse. Ma, in realtà, un desiderio di punti fermi in chi ha scelto, come me, di partecipare alla vita pubblica, andando a Roma per portare il suo silenzio in Parlamento. Strano destino per chi ha sempre parlato, discusso, e si trova ora a dover votare presidenti, vicepresidenti, questori della Camera, riducendosi a un numero anche se fra eletti. Pochi - soltanto i siciliani, non per difetto d’amore, che anzi è sempre in loro fortissimo, ma per scoramento, per vergogna dell’orrore, per coscienza di una irrimediabile inerzia - si sradicano completamente, scelgono un’altra patria, uccidono la nostalgia, i più, con regolare o irregolare cadenza, come seguendo una inevitabile clinamen, ritornano. E vogliono trovare tutto fermo. Loro si muovono, la casa è immobile, e con la casa le cose, e con le cose le persone.
Ughetta, Velia, Maria Teresa, Aida sono alcune delle sculture partite per una mostra sul primo Novecento. Per qualche mese abiteranno altrove, non più in compagnia dei miei genitori, ma a fianco di tante loro compagne e per gli occhi di migliaia di estranei che sapranno amarle, che le guarderanno distrattamente, che non le guarderanno. Questa volta sono a casa io e loro sono fuori, nel mondo. Sono sul fronte a combattere per far sapere che esistono non loro, ma gli artisti, i grandi artisti che le hanno fatte nascere: Libero Andreotti, Filippo Cifariello, Domenico Baccarini, Enrico Astorri, Mario Parri.
Qualcuno già ride, qualcuno ha riso, ma il vero Andreotti di questo secolo, quello il cui nome resterà quando saremo morti, non è Giulio ma Libero, lo scultore di Pescia, che ha avuto inesauribili intelligenza e fantasia, non sufficienti per essere ricordato in questo tempo di ciechi e di ignari. Alla mostra, davanti alla «sua» scultura, c’è la ragazza per la quale Andreotti l’aveva concepita: Velia Pesaro, giunta da Reggio Emilia per abbracciare se stessa bambina. Già l’artista aveva prefigurato questo incontro, avvenuto dopo più di settant’anni, nel movimento delle braccia, così autoprotettivo, della scultura. Starò per un po’ senza Velia, ma ricorderò a lungo l’incontro, sopra e contro il tempo, di queste due ragazze.
Con più malinconia mi sono separato da Onorina, la piccola figlia Onoria dello scultore di Caltagirone, Andrea Parini, che ci ha lasciato in ceramica l’immagine perfetta della sua bambina dormiente, dichiarando, fra penna, calamaio, ago e filo, il suo desiderio: «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice». Alla mostra c’è Onorina cresciuta, e ci sono anche sua madre e suo fratello. Onorina guarda Onoria. Ed è ben viva.
Ma è difficile decidere se sia più presente nel suo infinito sonno la piccola Onoria o la grande Onorina che ho davantiIo, comunque, qui a casa, aspetto il ritorno di Onoria, di Ughetta, di Velia, di Maria Teresa e di Aida. Nella pietra, nel bronzo. Nella vita.
© Vittorio Sgarbi
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