Paolo Giordano
da Milano
Ma guarda come ciondola Simon Le Bon inseguendo il suo ciuffo alla Little Tony. Boati e che boati quando alle 21 in punto si spengono le luci al FilaForum e lui zompa sul palco con una giacca di lamé grigio abbottonata stile cameriere per rimanersene almeno un minuto a farsi coccolare dagli applausi, nel buio rotto solo dai flash e, massì, dalle luci dei telefonini.
Signore e signori, ritornano gli anni Ottanta e lo fanno con la pancetta e la tintura di capelli (molto alla moda il mogano di Nick Taylor), in scioltezza, senza nemmeno farci caso se in fondo la metà del pubblico ai bei tempi non era neppure nato. Questo è pur sempre un Sunrise, ossia «unalba» come recita il titolo del primo brano, quello più conosciuto a chi sventola il telefonino (era la colonna sonora di spot tormentone della Tim) e lunico in cui il gruppo riesca a mantenersi fluido, senza incepparsi o perdersi per strada o mangiarsi persino lo spartito perché intanto siamo dal vivo e chissenefrega.
Tutte le formalità se ne vanno via con la giacca di Simon Le Bon, slacciata e gettata alla seconda canzone. «Come state Milano?». Quando i Duran Duran si tirarono fuori dalla nebbia di Birmingham era la fine degli anni Settanta e il più chic del reame era ancora Johnny Rotten, lanima marcia e punk dei Sex Pistols e quindi figurarsi che cosa centrava un gruppo di bei faccini (ora vestiti da Armani) che mescolava il pop più agile al rock da supermercato. Però erano Hungry like the wolf, cioè affamati come lupi e dopo tre anni persino Lady Diana li incoronò come «mio gruppo preferito». In tutto il mondo (Europa di più, però) questi cinque ragazzotti diventarono il simbolo di quello che sognavano ma non di quello che erano: donne e champagne, graffi e griffe, insomma i portavoce dei «paninari», i ragazzi imbottiti di Moncler e luoghi comuni, sbeffeggiati a Drive In e dai critici con la puzza sotto il naso ma incatenati ad altre banalità.
Da una parte loro (e gli Spandau Ballet), dallaltra tutti gli altri in quella che è stata lultima grande guerra musicale: dopo, solo conformismo o supina accettazione. E così rieccoli ora i Duran Duran, dopo quasi quindici anni di purgatorio e strazi gastronomici (Simon è cresciuto di due misure, gli altri più o meno), qui al Forum davanti a diecimila fans che cantano a memoria tutte le canzoni e ritrovano qui i loro tempi più belli. Ventitré brani, due ore e rotti, una corista (Anna Ross) che viene incontro al cantante quando lui proprio non ce la fa oppure è troppo impegnato a sgambettare come un ventenne. Dopotutto siamo alla festa di gala degli anni Ottanta, mica si può respirare.
Così quando Le Bon annuncia What happens tomorrow e si lascia sfuggire di averla scritta «due anni fa, quando il mondo era in guerra e stavano bombardando Bagdad», al pubblico lappello scivola via immacolato e il boato esplode solo quando inizia la canzone, avvinghiata al ritornello quasi beatlesiano e a un arrangiamento così biodegradabile da consentire di timbrare il cartellino senza troppi patemi. Ma tanto è questione di poco. Con la maliziosa cadenza di chi se ne intende, i Duran Duran piazzano in scaletta un successo ogni tre canzoni così è impossibile distrarsi. Tanto per dire, The reflex arriva subito dopo la banalissima Hold back the rain, che sa di anni Ottanta come un film di Michael Douglas e A view to a kill (dalla colonna sonora di 007) tira su le palpebre dopo lordinaria Chauffeur. Daltronde questo è mestiere.
Laltro giorno, dopo lo show allo Zenith di Parigi, intorno a questi quarantenni molto vissuti sono riapparsi i profughi della haute couture, quelli che la moda innanzitutto, ma sembrava una rimpatriata piena di mascara e rimpianti. Se i Duran Duran (che tra laltro il 19 giugno saranno al Cornetto Free Music Festival di Roma) funzionano ancora è perché il passato è bello da idealizzare e oggi, a ventanni di distanza, sembra più luccicante di quello che fu.
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