Quante somiglianze tra Fini e Calogero Sedara

Egregio Paolo Granzotto, sono vecchio, ma ho buona memoria e mi piace capire quanto succede. Che cosa ha guadagnato Fini dal vespaio che ha sollevato? Non mi pare tanto! Se non invece ci ha rimesso! A proposito mi viene a mente un libretto scritto dall’economista Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo che descriveva un metodo per poter valutare le persone in base a due parametri: quanto ci guadagnano o ci rimettono essi, nell’agire, e quanto ci guadagnano o ci rimettono gli altri, a seguito delle azioni da loro messe in atto: e divide l’umanità, seguendo detti concetti, fra «intelligenti» se guadagnano e fanno guadagnare, «sprovveduti» se ci rimettono ma fanno guadagnare, «banditi» se guadagnano ma fanno rimettere agli altri, «stupidi» se viceversa fanno perdere agli altri, ma perdono essi stessi. Ed arriva a sostenere che noi, in genere, sottovalutiamo la massa di stupidi presenti, nella nostra società, anche nei ruoli più importanti. Che ne pensa, lei?
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Non col senno di poi, ma con quello di prima, sempre che il mio sia senno e non semplice fiuto, il Götterdämmerung di Fini e della sua scombiccherata «falange macedone» non mi ha sorpreso. Sentivo che sarebbe andata come in effetti è andata. Vede, caro Lambertini, l’iniziale affermazione del futurista capo era dovuta non al suo pensiero, ma al suo silenzio, Quando Silvio Berlusconi lo sdoganò, traendolo dal gulag dell’arco costituzionale per proiettarlo nel grande Barnum della politica, Fini per tre anni non aperse bocca. Se lo ricorda il Calogero Sedara del Gattopardo che per la prima volta mette piede in una dimora principesca, invitato al gran ballo? Era sopraffatto dall’emozione, dall’imbarazzo e dalla soggezione: lui, un fattore, ancora uomo da nulla confuso nel bel mondo, attorniato da uomini e donne illustri, servito da lacchè in polpe. Sovrastato da tanto splendore gli mancava il fiato, aveva le palpitazioni e, appunto, non riusciva a spiccicar verbo. Lo stesso accadde a Fini una volta varcata, grazie al Cavaliere, la soglia del Palazzo: attonito e muto. Bene, l’ostentata taciturnità fu scambiata dai più per profondità di pensiero di uno spirito riflessivo, per inquietudine intellettuale, E uno dopo l’altro tutti a dire: però, intelligente quel Fini, un pensatore, non uno dei soliti politici ciarlieri. Che cantonata! Quel mutismo, infatti, nascondeva il nulla o il pochissimo che frullava nella testa di Fini. Tant’è che quando cominciò a parlare, rivelandosi, lo fece sciorinando luoghi comuni, frasi fatte (da altri): fuffa. Non una idea originale. Nemmeno, fessissima, infantilmente conformista, di definire - lui fascista appena gratificato da un “ex”, uso a arringare i “camerati”, al saluto romano, ai labari e gagliardetti dell’iconografia mussoliniana - il fascismo «male assoluto». Clamorosa excusatio non petita (accusatio manifesta) nella quale tradizionalmente inciampano gli animi piccini. I Calogeri Sedara. Quando poi si ritrovò a vestire vestì i panni dell’alta carica istituzionale - il repentino passaggio dalle cameratesche panche di via della Scrofa alla dorata poltrona di presidente della Camera agì su di lui come una tripla grappa bevuta a digiuno - e si mise a brigare per mettersi in proprio non ebbi dubbi, caro Lambertini: avrebbe sbattuto il muso, per dirla in linguaggio popolare. E così è stato. Sbam! Se non c’è stoffa, se non c’è cervello, se ci si circonda di Bocchini, Granati e Brigugli lontano non si va. E anzi, la paghi cara. Dopo il fallito, rovinoso alzamiento a Fini ha non restano che due opportunità: sparire politicamente, confondersi nella massa anonima degli ascari parlamentari e lì tirare a campare o intrupparsi, lui e i suoi Bocchini, sotto le insegne del ben più scaltro Casini.

E ubbidire a Casini, accorrere a ogni suo schiocco di dita, è il giusto castigo per chi, in un delirio di onnipotenza, volle farsi re (detronizzando, questo è il colmo, l’incontenibile, grande Berlusca).
Paolo Granzotto

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