Lacrime dovunque. Piangono quelli del Grande Fratello. Se appare un loro congiunto, quando sentono le voci di un parente dimenticato o trascurato, se il loro ultimo amore deve uscire dalla Casa. Piangono le miss ai concorsi di bellezza, felici di vincere, disperate per l’eliminazione. Piangono le promesse di Amici o X Factor, dove si concorre per una canzone, per un posto in prima fila, spuntano i fazzoletti e il volto si inonda di commozione, mentre il popolo pubblico applaude e partecipa all’atto di dolore. Piangono i calciatori dopo una sconfitta ai rigori, piange il tifoso in curva per la squadra sua costretta ad arrendersi; piange il maratoneta, sfinito, piange il ciclista con le mani al cielo sotto il traguardo. Piange il politico che abbandona l’incarico, piange il comiziante che chiede voti, toccando al cuore l’elettore romantico. Piange la madre omicida, piange il serial killer pentito, piange lo stupratore che chiede pietà.
Non piangono i bambini di Haiti. Hanno la faccia con una piccola luce di speranza, guardano con occhi più grandi della tragedia che li circonda, muovono le mani, quasi a cacciar via l’aria fetida. Hanno perso tutto, la casa, i giocattoli, gli amici, le madri, i padri. Sembrano statuine al centro di un presepe distrutto da una mano cattiva. Manca la rappresentazione del loro dolore, manca l’esibizione della loro sofferenza, vorremmo vederli in ginocchio, con le mani giunte, a pregare la nostra commiserazione. Noi, abituati allo spettacolo continuo, quotidiano, di casa nostra, di grandi e piccoli fratelli, di grandi e piccole vittorie, restiamo spiazzati, stupiti.
Da Haiti arrivano lamenti lontani, singhiozzi, gemiti spinti dal vento caldo ma sono gocce di vita rispetto a quel mare finto e inutile di certe nostre trasmissioni televisive, alla passerella dei casi più o meno umani, al chi l’ha visto del sentimento, ai drammi esplosi in una camera e riproposti davanti a una telecamera.
«Devi avere dignità», ci ammonivano un tempo, asciugandoci il volto umido di pianto; e allora strizzavamo il naso, raschiando la voce, ricomponendoci, in silenzio, voltando il viso da una parte, quasi nascondendoci, imporporando le gote per la vergogna. Le lacrime erano segno di una fragilità emotiva da tenere nascosta, riservata, come altri comportamenti, il bacio, la carezza, la rabbia.
Così forse accade ad Haiti, inconsapevolmente, tra le macerie di edifici senza storia e i rottami di corpi senza respiro. I bambini di quell’isola che c’è, guardano, corrono, cercano, aspettano. Abituati ad aspettare, a cercare, a guardare, a correre mentre altro accade attorno, lontano. Il terremoto ha cambiato il loro parco di divertimento, non la loro esistenza. Il colore del cielo, quello del mare sono rimasti immutati. I rumori, le voci, i suoni non hanno mai avuto melodia, come il clangore delle ruspe che scavano per ritrovare uomini, donne, altri bambini che non piangono. Chi piange ha paura, quando scende il buio della sera non trovano una mano, non sentono un sospiro che li rassicuri, li faccia sentire protetti, una madre, un padre appunto.
I bambini hanno tutti la stessa faccia, dovunque. Come i vecchi. Soltanto l’età di mezzo, divide gli uomini, li mette in guerra, li separa per razza, censo, religione.
Haiti è una terra da compiangere ma questo è un sentimento diverso, la solidarietà, la fratellanza sono doveri civici e umani che servono a lavarci la coscienza, frasi di circostanza, un atto di carità per poi ritornare verso il nostro avatar tridimensionale, cinematografico, televisivo.
Nessuno ha il solo, semplice pensiero di nascondere la propria sofferenza, di mascherare il proprio dolore; no, anzi, vanno esibiti, resi manifesti, pubblici, plateali, da rivedere alla moviola, inquadrati in primo piano, spiegati dagli opinionisti psicologi, illustrati da pedagoghi e docenti a gettone, temi di dibattiti e di sondaggi. Le lacrime di Haiti sono state ormai asciugate dall’alba di un giorno che non ha mai fine, che non garantisce la sopravvivenza, che incita all’odio.
Restano le lacrime sugli schermi di quest’altro mondo, un appuntamento quotidiano con il teatro della sofferenza debole, il telecomando dell’emozione. In fondo Haiti risorgerà e i bambini diventeranno uomini, donne, capiranno, finiranno di aspettare, di cercare, di correre.
Verranno a trovarci, li porteremo a visitare la Casa del Grande Fratello, dove i muri non tremano ma gli inquilini sono disperati.È meglio piangere a bordo di una Mercedes che su un tram, mi ha detto una signora, riponendo il fazzoletto nella borsa e spingendo il carrello del supermercato.
Ho pensato di ridere.
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