Gianandrea Zagato
da Milano
«Non sono abituati a ragionare. Anzi, si meravigliano quando si chiede loro un perché. E cosa studino, be resta davvero un mistero perché in quelle aule abbondano testi religiosi, volumetti di sure del Corano e si odono interminabili recite in coro». Fotografia della scuola islamica milanese di via Quaranta, lex fabbrica dismessa frequentata da più di cinquecento bambini: quelli che girano per le strade di Milano a bordo di pulmini «oscurati» per «non guardare e non farsi guardare».
Fermi immagine del professor Martino Rizzotti che ha insegnato in quelle aule - dove, tra laltro, regna «unincredibile sporcizia» - e che si dice daccordo con la chiusura della madrassa «per ragioni di sicurezza e digiene ma, soprattutto, per i contenuti e i metodi educativi che sono inaccettabili». E se lo dice lui cè da crederci: infatti, in quella struttura ha visto con i propri occhi lo stato delle cose ovvero «i metodi autoritari, lapprendimento esclusivamente mnemonico e i contenuti discutibilissimi».
Unesperienza, quella del docente milanese, che inizia nellestate del 2003, «quando insegno italiano a un ventina di studenti del centro di via Quaranta, allinterno di un corso estivo organizzato dal comune di Milano nei locali della scuola media di via Heine. Successivamente ho pure insegnato italiano ad altri studenti e anche ad adulti nei locali della moschea in ore extrascolastiche». Curriculum spartito «con due professori egiziani e una collega italiana: occasione davvero unica per analizzare i programmi della scuola media egiziana che erano adottati nella scuola di via Quaranta ma solo in teoria». Sostantivo, questultimo, che si traduce in continue litanie, nessun abecedario e tanto fondamentalimo islamico che cancella ogni possibilità di relazione con la città e che non dà alcuno stimolo a conoscere, sapere e ragionare ma sviluppa separazione e unidea didentità culturale esasperata.
Realtà che spinge quindi il professor Rizzotti ad applaudire alla chiusura imposta a quella scuola «perché quei giovani possano imparare qualcosa introducendoli nelle nostre scuole, nella nostra quotidianità e nel nostro mondo». Opportunità per crescere dopo aver vissuto lisolamento assoluto in una scuola illegale, «quasi tutti gli allievi di via Quaranta e le loro madri non hanno contatti con coetanei o adulti italiani, non parlano italiano o lo parlano malissimo, nonostante vivano in Italia da anni e spesso vi siano nati. Più isolati di così!». Figli di integralisti islamici cresciuti come copie sbiadite dei loro compagni di giochi italiani: «Alle domande: Di dove sei?, rispondevano: Egiziano. Figli di arabi ma nati a Milano che non sapevano nulla della città, che mai e poi mai avrebbero potuto raggiungere piazza Duomo». Ma, attenzione, nessuno stupore: «A portare a scuola i miei allievi era un pulmino che aveva tutti i vetri oscurati con pezzi di cartone».
Andata e ritorno casa-scuola indossando il sospetto di frequentare un rifugio di fondamentalisti, dove indottrinavano i ragazzi e, magari, li preparavano a diventare terroristi: percorso che Rizzotti però nega, «certamente vi si insegnano un teorico islam primitivo, lalba dellIslam appunto, che rifiuta di confrontarsi con le altre culture e sogna, in ultima analisi, di sottometterle». Barriere su barriere che il professore ditaliano ha tentato di abbattere - quando i ragazzi islamici frequentarono la media Heine - anche sfruttando lora di merenda: «Decisi che facessero lintervallo con gli altri studenti. Si misero a giocare a calcio: Egitto contro Resto del mondo». Scelta educativa non prevista nelle clausole degli accordi con i responsabili della scuola islamica, «alla media Heine volevano una classe solo per loro, la presenza di un insegnante arabo come supervisore, maschi e femmine separati da una tenda e lintervallo in tempi diversi da quelli previsti per le altre classi». Tutte accolte con lesclusione di quella della tenda anche se luniverso femminile offriva, aggiunge Rizzotto, altre sorprese: «Quando imposi, ad esempio, la ricreazione in comune pure alle ragazze, queste si rifiutarono di aver contatti con le coetanee di altre nazionalità. Lunico modo per sentire le loro voci era quello di farle leggere allunisono».
Testimonianza dellisolamento voluto con un denominatore comune come risultato, «la percentuale di insuccessi di studenti poi iscritti alla scuola italiana è altissimo». Fallimento dovuto a una preparazione scolastica evidentemente non allaltezza in quellex fabbrica al civico 54 di via Quaranta, «locali inadatti e malfunzionanti». Un non-luogo fatto di uffici, una libreria, uno spaccio alimentare e, nel seminterrato, una moschea «con i bagni per le abluzioni»: «Le aule? Al piano rialzato, talmente piccole che i banchi sono quasi accatastati luno sullaltro. Carenza di spazio che costringeva i loro insegnanti a lasciarli nella moschea, privandoli cioè di ore di studio e di lezione. Il riscaldamento? Funzionante un giorno no e laltro sì. Gli estintori? Fosse scoppiato un incendio non ci sarebbe stato scampo per nessuno». Quadro che si completa con «lincrebile sporcizia» e con un dettaglio che la dice lunga sulla «notevole capacità di sopportazione dei bambini»: «In via Quaranta non cè una mensa, solo lo spaccio. Questo significa che i ragazzi non facevano mai un pasto caldo fino alle sei di sera, quando ritornavano a casa». Che aggiungere? «Che vogliono mantenere la massima distanza possibile dalla nostra cultura». Come dire: «Da due anni nelle elementari si insegnava anche italiano e da questanno la nostra lingua sarebbe stata insegnata anche alle medie. Ma i loro programmi erano e restano quelli della scuola di via Quaranta, che nessuno ci ha mai svelato chiaramente e onestamente».
Resta però lamaro in bocca, confida Rizzotti, perché non vogliono accettare la sfida che Milano gli offre, un futuro che non sentono cosa loro. «Posso dire con certezza che i nostri docenti sono, in generale, molto capaci, accoglienti e comprensivi. Dopo un breve periodo di adattamento gli ex-studenti di via Quaranta si troverebbero bene nella scuola statale. Il problema non sono quei studenti ma le loro famiglie, che vivono la nostra cultura in modo ostile e paranoico, soprattutto quando si tratta delle loro figlie.
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