È (quasi) scientifico: «Breaking bad» dà dipendenza

La televisione è una faccenda per scrittori. A differenza del cinema, dove - finita l’éra dei Monicelli, Cecchi D’Amico, Scola, Sonego -,a farla da padroni restano produttori e registi e tanti saluti agli sceneggiatori. Soltanto in Italia, però: non si contano infatti gli autori Usa che misurano l’impatto della propria cifra narrativa sui successi della tv seriale (vedi Mad Men). E se il cinema arretra, per mancanza di pubblico, stufo del 3D e della scomodità delle sale, la tv avanza con la teledipendenza creata dalle sue serie di successo. Da una quindicina d'anni assistiamo a un fenomeno di dipendenza di massa, che tocca tutte le generazioni e tutti i gruppi sociali. Un meccanismo che spinge a sacrificare le notti e a organizzare i giorni in funzione della programmazione di Boardwalk Empire. E se la crisi economica obbliga tra le mura di casa un numero maggiore di disoccupati, eccoci al documentario del francese Olivier Joyard, che in Series addict (in onda su Canal+) filma una seduta di scrittura collettiva di Breaking Bad, rivelando sofisticate tecniche di scrittura, studiate ad arte per creare dipendenza. Nulla è lasciato al caso, mentre restano fari come Beverly Hills 90210 (dal 1990 al 2000), serie tv su un gruppo di ricchi studenti californiani, vista da telespettatori la cui età aumentava di pari passo con le puntate. O come Friends, C.S.I., Doctor House, i cui personaggi entrano nella scena mentale degli spettatori, agitandovi emozioni difficili da trovare nella vita vera.

La complessità e l’ambivalenza di personalità come quella del prete-esorcista (Claudio Gioè) de Il tredicesimo apostolo, creano dunque affezione al personaggio forte, che segue una traiettoria, cioè una narrazione, pronta a esplodere a metà stagione. E a tenerci incollati al teleschermo fino alla fine.

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