Cultura e Spettacoli

Quei «bravi soldati» che non torneranno più

C i sono libri in cui a un certo punto diventa difficile girare pagina. Nella maggior parte dei casi è per noia. Leggendo I bravi soldati (Mondadori, pagg 306, euro 17,50) di David Finkel invece si ha sempre un po’ paura quando si tratta di voltare facciata. La paura, in aumento capitolo dopo capitolo, nasce dal fatto che, di colpo, si può scoprire che uno dei “personaggi” a cui ci si è affezionati, ha appena perso entrambe le gambe su uno Ied (Improvised Explosive Device) oppure è stato colpito da un cecchino, alla nuca, e ora è in una clinica di riabilitazione. E a testimoniare il danno, il lutto, la paura molto spesso c’è una foto, come quella che mostra l’Humvee incendiato dove è morto il soldato James Harrelson.
E sì, perché anche se trascinati dalla narrazione di Finkel, che ha una penna incredibile, si ha l’impressione di essere in un romanzo, invece quello che si sta leggendo è tutto vero. È capitato a persone in carne e ossa. Il battaglione 2-16, comandato da Ralph Kauzlarich, è stato sul serio a Rustamiyya, una delle zone più temibili di Baghdad. Dal 6 aprile 2007 al 10 aprile 2008. Davvero per mesi e mesi dei ragazzi, spesso nemmeno ventenni, sono usciti in pattugliamento sui loro mezzi blindati, attraversando baraccopoli desolate e distese di immondizia con in testa un solo assilante pensiero: «Questa volta salto in aria, cazzo, questa volta tocca a me....». Finkel, uno degli inviati di punta del Washington Post, è riuscito a trasformare la loro storia in un racconto coinvolgente e tremendo, molto più di un reportage giornalistico. Ci è riuscito perché è stato con loro per mesi, li ha ascoltati, ha studiato nel dettaglio i rapporti dell’esercito. Ha passato il suo tempo nel punto più caldo del Surge, l’operazione voluta dal generale Petraeus per riuscire a tirare le truppe americane fuori dalle sabbie mobili - fatte di attentati e di guerra non convenzionale - in cui si erano impantanate. E se alla lunga il piano ha funzionato sono stati battaglioni come il 2-16 a pagare, sulla propria pelle, il prezzo sanguinoso del successo. Il 2-16 ha avuto 14 morti e decine e decine di feriti, alcuni gravissimi. Mentre pian piano il Paese si normalizzava, i soldati che dovevano affrontare la zona più disperata di Baghdad subivano una pressione psicologica altissima, tale da rendere, per molti di loro, assai remota la possibilità di riadattarsi alla vita di prima.
Finkel racconta, appunto, tutto questo, non concedendosi mai svolazzi o «pipponi». Preferisce mettere in fila fatti e testimonianze. Mostra quanto sia diversa un «conflitto asimmetrico» (la parola «guerra» ormai i militari non la usano quasi più) quando lo si guarda da una scrivania, attraverso dei grafici a torta, rispetto a quando a separarci da quel conflitto c’è soltanto un sacco di sabbia in cui si piantano continuamente schegge di granata.


Ed è proprio questa narrazione diretta, senza filtri, che mette il lettore di fronte al peso delle decisioni che schiacciano il colonnello Kauzlarich (alla fine per i suoi soldati diventerà “Lost Kauz”, «causa persa»), alle paure che distruggono le sicurezze del sergente Schumann, alla vita del traduttore iracheno che tutti conoscono come Izzy, alla morte di tanti altri soldati e civili meno fortunati. Il risultato è una piccola Iliade moderna, carica di dolore. E come nell’Iliade anche chi vince non sarà più lo stesso, dovrà fare davvero tanta strada per tornare a casa.

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