Quei «corrieri» che varcarono lo Stretto di Gibilterra

Caro Granzotto, lei mi è affatto simpatico e per questo motivo le ho perdonato il catastrofico «jet leg» in una sua recente lettera sul tema Alitalia. Tanto più che da molti anni ho deciso di eliminare Alitalia. Sunt certi denique fines quos ultra citraque… Uso qualsiasi altra linea, magari Air Maroc (dove le hostesses portano la bombetta).
Scopo principale di questa mail è chiederle l’etimologia del sostantivo «lacché» che lei usa nella lettera di oggi. È forse quella estremamente scurrile che io sospetto? O è solo una vaga assonanza?
Pierangelo Maletto e-mail

Prima d’affrontare il toro per le corna, vogliamo, caro Maletto, togliere dall’imbarazzo il lettore il cui latino è magari un po’ arrugginito? Sappia allora che la citazione, notissima nella sua prima parte, è tratta dalle Satire di Orazio. Laddove egli afferma, appunto, che est modus in rebus, sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit constare rectum, ovvero sia «c’è una giusta misura nelle cose, vi sono precisi limiti al di qua e al di là dei quali non può esservi il giusto». E questo l’abbiamo sistemato. Veniamo al jet leg. A parte il fatto che trovo divertente l’idea di una gamba a reazione, ma lo sa che talvolta anche il buon Omero dormiva? E se dormiva lui non posso dormire anch’io? Magari qualcosa in più di talvolta? E due. Passiamo al lacché. No, caro Maletto: anche se ha assonanza col verbo che indica il far scorrere la lingua su qualcosa (e conoscendone certi sappiamo bene cosa possa essere quel qualcosa), la parola lacché non nasconde magagne, non maschera scurrilità, anche se… lei ora non ci crederà, ma il Delâtre, e dico poco, credette di poter affermare che lacchè viene dall’inglese leg, non esattamente da «jet leg», ma da leg sì, parola la quale, dice sempre il Delâtre, combina con la voce italiana «lacca», qui intesa come coscia e, per estensione, natica. Tout se tien, come avrebbe esclamato il Delâtre?
Non lo possiamo sapere perché l’etimologia è e resta incerta. Qualcuno sospetta che lacché tragga dal neogreco «ulakès», talaltro dal turco «ulaq» (corriere) e talaltro ancora dall’arabo «lakià» - che sta a significare persona di basso, di comune impiego - o più esattamente dal suo derivato «lakiyy», valletto. Questa diciamo così scuola di pensiero vuole che il termine arabo sia migrato con le orde islamiche in Spagna dove si spagnolizzò in «lacayo», inteso come soldatino, scudiero. Da lì, dalla penisola iberica, valicò i Pirenei prendendo la forma di «laquais» e indicando nella fattispecie il giovane valletto che serve il padrone precedendo di carriera la sua carrozza per farle strada allontanando vecchi, bambini e perdigiorno. Dalla Francia, infine, passò in Italia con il medesimo significato di servitore. Non è dato sapere quando poi il termine prese a rappresentare chi con modi servili e striscianti, da lumacone, lusinga e adula una persona. Pare, dico pare, che il primo a volgerlo nello spregiativo sia stato Edmondo De Amicis il quale scrisse di «lustrastivali, di leccazampe lacchè di prìncipi».

Quel che è certo è che il termine nella versione denigratoria conobbe un boom mica male al tempo della Rivoluzione culturale, quando Mao, prima di accopparli, bollava i suoi avversari da «lacché dell’imperialismo». Marchio infamante immediatamente preso in consegna e scandito nelle piazze e nei salotti dai maoisti nostrani. Che erano tanti, quei bischeri.

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