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Quei due campioni traditi dal loro «credo» nel mercato

Le storie parallele di Profumo e Marchionne, top manager di «grido» che negli ultimi 2 mesi hanno bruciato 35 miliardi

da Milano

Quando, l’autunno scorso, Alessandro Profumo annunciò di avere ceduto l’ultimo pezzo di capitale Fiat che era rimasto in eredità a Unicredit dai tempi del prestito «convertendo» del 2002 (non senza qualche polemica), nessuno immaginava che di lì a poco i destini di Fiat e Unicredit si sarebbero incrociati ancora. O, meglio, quelli di Profumo con quelli di Sergio Marchionne, amministratore delegato del Lingotto. Entrambi travolti dalla crisi dei mercati.
La banca milanese, che in primavera dopo la fusione con Capitalia è divenuta la seconda in Europa con 100 miliardi di capitalizzazione, nel giro degli ultimi due mesi ne ha ceduti ben 26 (il titolo è passato da 7 a 5,4 euro). Pagando più caro di tutti il prezzo della crisi innescata dai mutui subprime. In parallelo, la Fiat risanata da Marchionne, che questa estate sublimava a Torino il suo momento d’oro con il fantasmagorico lancio della nuova Cinquecento, subiva improvviso e ingeneroso il voltafaccia del mercato, passando dal record dei 24 euro per azione di luglio, ai 16 di ieri. Miliardi di valore bruciato: 10 (da 30 a 20). Per Profumo e Marchionne, golden boy del nuovo rinascimento economico nazionale, sono stati calici amari e, soprattutto, inattesi.
Due manager duri e puri, accomunati dall’essere percepiti entrambi come gli anticonformisti della grande finanza o dei poteri forti, per antonomasia. A dall’avere un unico credo: il mercato. L’uno, Profumo, scuola McKinsey, inventore di Unicredit, quando il percorso intrapreso al Credito Italiano lo ha portato fino al cuore di Mediobanca, ha voluto sorprendere gli usi e costumi dell’establishment milanese prendendo le distanze dai salotti e dalle lotte di potere. Ha lasciato poltrone e partecipazioni non connesse con l’attività bancaria della sua impresa, a partire dal Corriere della Sera, e ha scelto di non partecipare a riassetti industriali in cui non credeva, come quello di Telecom Italia.
Intanto Marchionne entrava alla Fiat da carneade svizzero-canadese e nel giro di pochi mesi risolveva il problema del rapporto con la General Motors riuscendo, in un sol colpo, a incassare 2 miliardi di dollari e a divorziare con l’ingombrante socio Usa. Da lì in poi è stato un crescendo di successi industriali, conditi da una cultura calvinista del lavoro che ha introdotto - tra l’altro - un clima nuovo nelle fabbriche e negli uffici del Lingotto. Con la conflittualità sindacale ai minimi storici e la teorizzazione della «responsabilità sociale dell’impresa» espressa dalla prima pagina del Corriere. (Dal capitale del quale, a differenza di Profumo, Marchionne si guarda bene dall’andarsene).
Ma è bastato che il vento del «loro» stesso mercato girasse un po’, per rendere deboli tutte le certezze dei due campioni e per svelare che di fronte alle bizze dei listini non c’è difesa. La crisi dei subprime ha colpito Profumo nel cuore della sua creatura, Unicredit, proprio quando questa stava cambiando: con l’acquisizione di Capitalia il gruppo si è trovato ad essere un po’ più provinciale, essendo però nello stesso tempo il più internazionale degli istituti italiani. E, come tale, il più esposto alle distorsioni della globalizzazone. Risultato: ha pagato dazio sia per un verso, sia per l’altro. Senza, in verità, aver subito particolari perdite. Marchionne, invece, aveva appena finito di immaginare la Fiat come «la Apple delle auto» quando sul mercato mondiale del settore si trasmettevano a loro volta le paure di recessione indotte dalla crisi finanziaria. E a quel punto è bastato rivedere al rialzo gli obiettivi 2007, ma non quelli del 2008 per far girare il vento e il consenso degli analisti, a velocità uguale, ma contraria.
Oggi, paradossalmente, i due top manager sono alla mercé di un mercato che è tanto onesto nel riconoscere merito a chi lavora con l’unico obiettivo della creazione di valore, quanto ingeneroso nello scontare fino all’osso ogni possibile criticità presente e, soprattutto, futura. Rendendo difficile qualsiasi difesa. Per questo Marchionne fa oggi più fatica a spiegare il calo da 24 a 16 euro, che non il precedente balzo da 4 a 24, e incassa il declassamento di Goldman Sachs.

Mentre Profumo non si sa con quale umore abbia appreso, l’altro giorno, la mossa degli analisti di Citi. Che hanno tolto Unicredit dalla loro «buy list» bancaria per inserirci Intesa Sanapaolo. Oltre al danno, la beffa.

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