«Quei favolosi anni ’60 con Schifano, Rotella e C.»

Amarcord di una rivoluzione artistica; di un’epoca, quella a cavallo degli anni Sessanta, che sotto la madonnina generava e cullava non solo «tendenze» ma avanguardie, anche se il termine era già desueto. E chi meglio di Giorgio Marconi, gallerista e mecenate che ebbe l’intuito e la pazienza di covare talenti come Mario Schifano, Mimmo Rotella, Enrico Baj, Valerio Adami e tanti altri, chi meglio di lui potrebbe meglio testimoniare quegli anni ricchi di fermento in cui Milano attirava artisti e critici da tutto il mondo? E allora, in attesa che gli spazi pubblici accolgano degnamente la nostra grande storia recente, ben venga che i privati facciano da sè, specie nel caso di un gallerista come Marconi, classe 1930, talmente innamorato di quell’avventura da aver conservato gelosamente alcuni tra i pezzi migliori, anzichè cedere alle lusinghe. Da Castellani a Paolini, da Dorazio a Ceccobelli. «Allora, quando valevano poco, i collezionisti non li compravano. Oggi preferisco tenermeli...». Come lui pochi altri mercanti illuminati divennero l’epicentro del nuovo: le gallerie Blu, Schwarz, Apollinaire, il Naviglio, l’Ariete. «Erano gli anni in cui Milano iniziava a contendere a Parigi lo scettro di polo dell’intellighenzia artistica del vecchio continente, in un’epoca in cui l’Europa sonnecchiava mentre Stati Uniti e Inghilterra vivevano di rendita dei trionfi della Pop art» ricorda Marconi, che in questi giorni ha inaugurato negli spazi della sua Fondazione di via Tadino 15 la mostra «Grandi Opere... Grandi», che oltre a raccontare trent’anni di raccolte, testimonia anche la particolare predilezione che il gallerista ha sempre avuto per le opere monumentali. «Sono stato sempre affascinato dai grandi formati, li ho sempre collezionate pensando un giorno di fare un museo di Grandi opere. Chissà» dice, trascurando con un pizzico di modestia che, al di là delle dimensioni, si tratta di opere di straordinaria importanza e in alcuni casi quasi inedite per la loro rarità. Come il primo grande «reticolo» di Piero Dorazio intitolato Durante l’incertezza e grande quasi due metri e mezzo per tre. «Era importante per me avere quel pezzo perchè mi divertiva molto vederlo nel suo studio quando, aiutandosi con un bastone, tirava righe perfette col pennello sovrapponendo le sue texture di colori». O come la straordinaria Superficie bianca del maestro spazialista Enrico Castellani, di cinque metri e mezzo per due, «la sua opera più grande». Non mancano alcune vere e proprie «chicche» come la serie fotografica di Franco Vaccari intitolata Viaggio per un trattamento completo all’albergo diurno Cobianchi, in cui l’artista modenese riprende le proprie escursioni nei bagni pubblici di Milano con tanto di fotocopia del biglietto d’ingresso. «Oltre a un’opera d’arte un pezzo di storia - sorride Marconi - perchè negli anni ’60 i bagni Cobianchi erano un’istituzione, uno è qui a due passi in Porta Venezia». E ancora eccezionali décollage di Rotella con l’artista in veste di writer. «Qualche volta l’ho accompagnato a recuperare quelle vecchie lamiere ricoperte di manifesti strappati prima che andassero in demolizione». Eppoi ben documentato il caso Schifano, croce e delizia del gallerista che ne manteneva talento e vizi. Al secondo piano fa bella mostra Tuttestelle, un enorme firmamento su sfondo blu. «Lo accompagnai una sera in una nota balera milanese e lui restò incantato come un bambino dalle stelline proiettate da una palla stroboscopica. Così fece quell’opera aggiungendovi, chissà perchè, le sagome di una scultura di Brancusi». Di Schifano espone anche l’opera Camminare che cita il particolare di un noto dipinto di Boccioni ricalcandovi la sagoma delle proprie scarpe.

«Un accessorio che adorava e infatti, nella sua scriteriata gestione del denaro, ostentava polacchine costosissime mentre sotto i pantaloni non indossava le mutande. Che le compro a fare, mi disse, tanto nessuno lo sa...».

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