Quel 6% dei soci che governa una banca quotata

F annulloni o no, secondo la definizione di Montezemolo, questa volta i sindacati hanno fatto saltare una fusione bancaria da 10 miliardi. Succede tra Milano e Modena, 150 chilometri tra i più ricchi del mondo occidentale. E riguarda un gruppo bancario quotato in Borsa con quasi 200mila azionisti, che ora potrebbe non vedere mai più la luce. Tanto che sia nella sede della Banca Popolare di Milano, sia in quella della Emilia Romagna si sta pensando al «piano B». Succede in Italia, dove le banche in questione sono sì quotate in Borsa, ma sono anche società cooperative, con una governance particolare: quella del voto capitario (un socio-un voto). Che, nel caso della Bpm, ha assunto una declinazione tale per cui i dipendenti, che sono al 95% anche soci, decidono bello e cattivo tempo. I numeri: su 100mila azionisti Bpm, 6mila sono dipendenti. Questi vestono le varie casacche sindacali (Fabi, Fiba e Fisac sono, nell’ordine, le maggiori), la cui proporzione viene riprodotta nell’associazione «Amici della Bpm» che, in assemblea, presenta la lista di 16 consiglieri su 20 che poi controllerà il cda. Semplice, no? Con il risultato che il 6% dei soci (i dipendenti) governa una banca quotata, come ha poi dimostrato la poca o nulla autonomia degli amministratori rispetto alle decisioni della base.

I padroni della Bpm sono gli stessi che all’interno di Bpm godono da anni di poteri arcinoti, quali quello dell’assunzione di figli al momento della pensione, piuttosto che il diritto alla concertazione delle politiche di gestione delle risorse umane. Poteri, evidentemente, intoccabili.

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