di Sebastiano Grasso
Caro Vittorio,
letto il tuo editoriale Il Corriere, lo sciopero e il sindacato miope, mi vengono in mente alcune considerazioni sia come giornalista del Corriere (da 39 anni), sia come ex membro di un paio di Comitati di redazione del quotidiano di via Solferino. Sono d'accordo con te sul sindacato miope: ma solo se ti riferisci a quello estremamente politicizzato di oltre vent'anni fa. Dopo, la faccenda è cambiata. E di molto.
Oggi il nostro Cdr è diverso. Non è potere, non è cogestione e neppure «signorini che si credono affrancati dalle leggi del mercato». Questo sindacato ha approvato senza scioperi lo «stato di crisi» del Corriere, ha osservato il direttore promuovere o spostare quasi il 10 per cento della forza lavoro senza fare barricate, ha guardato nascere 24 nuove pagine e svariate iniziative su Internet senza chiedere un'assunzione e aumentando, così, la produttività dei giornalisti. Se un politico smentisce il suo programma elettorale abbiamo il dovere di ricordarlo agli elettori. Se un direttore fa altrettanto perché non dovremmo ricordarlo ai nostri lettori?
Lamenti che il direttore del Corriere non possa spostare un giornalista da un settore all'altro senza il suo consenso. È verissimo. Ma da quando in qua diventa una colpa chiedere l'applicazione di norme non solo esistenti, ma ribadite esattamente due mesi fa dallo stesso direttore (comunicazione di De Bortoli al Cdr, in data 21 settembre 2009: «Terrò fede a ciò che vi ho detto nel mio discorso programmatico di insediamento e vi ribadisco la validità della prassi, degli accordi, degli istituti interni al Corriere della Sera». Aggiungendo: «Il piano di ristrutturazione aziendale e il piano editoriale non si faranno sulla base di atti impositivi. La direzione non ricorrerà ad atti unilaterali. Ribadisco il rispetto della professionalità, dei ruoli e delle mansioni anche in questo periodo di emergenza»).
Questa norma, come ricorderai, non è nata a caso. Ma per evitare quel «cimitero di elefanti», rimpolpato ogni qual volta si cambiava direttore. Il nuovo venuto si portava dietro una decina di persone di sua fiducia. E altrettante percepivano lo stipendio senza che fosse permesso loro di lavorare.
Lo sciopero dell'altro ieri non è un «lusso», ma il segnale di una redazione esasperata che vede passare sulla propria testa decisioni di cui è ritenuta responsabile senza esserlo. Un vecchio proverbio dice che il pesce puzza dalla testa. Qual è la testa di un giornale?
Tu ricordi benissimo il Corriere di Tassan Din: in poco tempo si avvicendarono decine di direttori generali, direttori di settori, amministratori, ecc. ecc,. che stavano solo qualche mese e poi se ne uscivano con prebende miliardarie. Il Corriere subì un'emorragia tale, da restare moribondo. Resuscitò. Il come, quando e perché lo hai pubblicato sul tuo giornale in questi ultimi tempi.
La storia, anche se con incidenze e modalità diverse, ha avuto aspetti molto simili ad allora, anche in quest'ultimo lustro. L'esempio più eclatante? Vittorio Colao, arrivato al Corriere nel 2004 e uscito nel 2006. Sola liquidazione: 10 milioni di euro (circa 20 miliardi di lire). Dicono che quando è approdato fra via Rizzoli e via Solferino, si sia portato dietro circa 70 persone. Che, quando è andato via, sono rimaste in gran numero.
E veniamo agli ultimi tempi. Investimenti esteri, con i risultati che tutti sanno. E sul fronte interno? Capitolo spese. Mentre sono nel Cdr, ricevo, per posta interna, da parte di un anonimo impiegato amministrativo del Corriere, i tabulati con nomi e compensi pagati ai collaboratori. La cifra si aggira attorno ai 15 milioni di euro. Impiego un paio di giorni per capirci qualcosa. Con relative sorprese. Decine di collaboratori esterni percepiscono somme varianti fra i 30 e i 50mila euro annui, a forfait, solo per quello che potrebbero scrivere (visto che, ovviamente, manca lo spazio per pubblicarli tutti). Come spiegare che il Corriere paga, mi pare, 108 elzeviri al mese, quando tutti sanno che il mese è di 30 giorni? Non parliamo, poi, di certi collaboratori cui vanno da 150 a 180mila euro all'anno per pezzi specialistici (ricordo che uno di essi, che veniva dalla Banca d'Italia, aveva cominciato come economista ed era finito scrivendo di tutto: persino racconti estivi). E che dire degli oltre 200mila euro all'anno dati ad un vignettista che lavorava in un altro giornale, mentre il vignettista-principe del Corriere, ne prendeva circa la metà (quando lo feci presente a Mieli, la risposta fu: «Vedi chi gli ha fatto il contratto». Sono andato a vedere e sono rimasto di sale!). E che dire di un altro collaboratore che - bravissimo! - è riuscito ad incantare un paio di direttori, dicendo loro, di anno in anno, che avrebbe avuto il Premio Nobel. Compenso? Anche a lui oltre 200mila euro di lire annui, sempre a forfait. Con un'amministrazione simile, soccomberebbe anche la più florida delle aziende. Colpa dei giornalisti?
Non svelo segreti. Di tutto ciò si è parlato in diverse assemblee del Corriere, comunicati sindacali e, per quanto riguarda i compensi, anche su Libero al tempo della tua direzione.
Su altri aspetti non certo meno importanti, come certe pagine «redazionali» e faccende «private» (che però incidono sul lavoro e sulle nomine), preferisco qui non parlarne. I più curiosi li potranno leggere sul libro che sto scrivendo e che si intitola Via Solferino e dintorni. E che, ti posso assicurare, non è il canto nostalgico di un pastore errante nell'Asia.
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