Quel disegno del «Corriere» dietro l’attacco alla Carige

Giorgio Oldoini

Un articolista del Corriere della Sera ha deciso di attaccare il vertice della genovese Banca Carige indossando la toga del castigatore che vigila sul buon governo delle imprese. Si avviano allora le dietrologie più inverosimili per capire le ragioni dell’aggressione. La prima, è che si voglia vendicare una macchia indelebile: la banca ha finanziato un furbetto del quartiere che aveva osato scalare la proprietà del giornale. Se così fosse, la vicenda rientrerebbe in una casistica alla quale siamo ormai abituati, il conflitto di interessi di cui tutti parlano con orrore quando riguarda il giardino altrui. Questa eventualità dev’essere esclusa per il pronto ravvedimento dell’esponente bancario che è «rientrato» mentre altri aprivano i rubinetti, dimostrando semmai la lungimiranza del grande tecnico.
La seconda è che il giornalista del Corriere, in possesso di notizie acquisite nel corso di indagini parallele che riguardavano un’altra banca nazionale, le abbia ora sparate nel libero esercizio della sua attività professionale. Questa eventualità non spiega il tono da crociata che caratterizza i due servizi fin qui pubblicati. Le notizie, in gran parte datate, sono state già esaminate dagli organi inquirenti o lo saranno a breve. Le ispezioni della Banca d’Italia, dell’Isvap e le richieste della Consob avranno il loro naturale corso. Non c’è dunque più bisogno di alzare il tiro esponendo la testata al rischio-risarcimento. A questo punto, infatti, la banca aggredita non ha altro mezzo che querelare, per ridurre gli effetti nocivi del processo di delegittimazione o presentare il classico esposto contro ignoti, come ha fatto l’altro ieri.
La terza eventualità è che qualche gruppo intenda speculare sul titolo nel breve periodo o ridurne il valore di Borsa ai danni dei piccoli risparmiatori per lanciare un’Opa ostile. La tecnica della divulgazione mirata di informazioni, prevede che minoranze non identificabili, nascoste dietro il segreto professionale del giornalista, siano poste in condizioni di provocare l’euforia o la paura sulla platea degli investitori, determinando le condizioni per attuare disegni speculativi. Questa ipotesi appare remota, considerato che il flottante è insufficiente per consentire guadagni di entità significativa. Si disserta infatti sulla «scalabilità» della Banca, un processo difficile se attuato secondo i canoni classici, dal momento che il prezzo dovrebbe essere così elevato da «obbligare» la Fondazione detentrice del pacchetto di maggioranza relativa, ad accettane l’offerta e il socio francese titolare del diritto di prelazione a rinunciarvi. Sotto questo aspetto, inoltre, la quotazione del titolo artatamente svalutato, avrebbe un impatto marginale.
Resta infine l’ipotesi di un tentativo di delegittimazione etica del vertice della banca e del ramo assicurativo, per decapitare l’Istituto privandolo della sua attuale guida cui si riconosce il carisma e la forza per portare a termine il disegno industriale in atto.

Quanti, dopo di lui, sarebbero in grado di resistere sulla linea del Piave respingendo gli effetti di un risiko per via mediatica spinto alle estreme conseguenze? È forse questo l’aspetto più delicato del complessivo disegno, perché la città e le istituzioni politiche non hanno fin qui dato chiari messaggi sulla volontà di tutelare l’autonomia territoriale dell’Istituto. Il che rilancia la centralità dell'attuale sistema di governance che dovrebbe essere rafforzato per garantire la continuità di una politica aziendale generalmente condivisa.

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