Quel gol che fece crollare l’Urss

Ci sono parabole che non puoi fermare anche se sei il migliore: sai che arrivano, le vedi e ti prepari, poi ti giri e sei superato. Impotente. Ci sono traiettorie che conosci, ma non puoi evitare: le hai studiate, le hai provate, le hai deviate, poi un giorno si presentano ancora e sono più forti di te. Immobile. È il pallonetto che ti fa la vita, più che un avversario. È quel colpo che segna il tuo tramonto e il mezzogiorno di qualcun altro. È un momento solo. È l’inizio della fine.
Rinat Dasaev si è chinato al crepuscolo della sua carriera senza volerlo in un tardo pomeriggio del 25 giugno 1988. Si è voltato e ha visto che non c’era più niente da fare. Il tiro di Marco Van Basten: destro al volo, da una parte all’altra, la palla che scompare, con tutto quello che si porta dentro. Lui fermo, nel mezzo. La parabola: la luce che divora il grigiore, il bello che umilia il brutto, l’Ovest che si mangia l’Est, il sole che illumina l’Occidente e lascia nel buio l’Oriente. Lì ha capito che il giorno era finito, che il tramonto se ne stava andando per lasciare spazio alla notte. La sua, dei suoi compagni, del suo Paese. Dei sogni e degli incubi. Ha abbassato la testa.
Lo sapeva che sarebbe toccato a lui chiudere la porta del passato. Perché lui era il simbolo: il guardiano della Perestrojka. Dasaev è stato l’ultimo portiere dell’Unione Sovietica, è stato il capitano, è stato la metafora. È stato il figlio modello di un sistema che doveva essere perfetto anche nella fine. E che invece se ne è andato imperfetto com’era nato. Sbagliato. Non poteva non essere lui: l’unico singolo in un gioco di squadra, quello che viene lasciato solo quando gli altri non ce la fanno più. Lui è stato Mosca abbandonata prima da Berlino, Varsavia, Praga, Budapest e Bucarest, poi da Vilnius, Riga, Tallin, Kiev e Minsk. È stato quello che ha aperto la strada agli altri ed è rimasto indietro. Aveva 31 anni quando Van Basten tolse a lui e a Michail Gorbaciov la possibilità di finire l’epoca dei Soviet dello sport con una vittoria.
Ci sono regimi che puntano tutto sugli sportivi più appariscenti, quelli che segnano e sognano, quelli che fanno propaganda. Per l’Unione Sovietica, invece, il simbolo è sempre stato quello che giocava con la maglietta diversa dai compagni. Apposta. È il capro espiatorio nella sconfitta, il prototipo del successo nella vittoria. Per il partito era più facile perché quello è il ruolo più difficile. Il portiere è la potenza e la debolezza insieme. È il primo. È l’ultimo. Non è uno qualsiasi. L’Urss ha capito e ne ha approfittato. È stato così per colpa di Lev Jashin che, mentre i carri armati entravano a Budapest, guidava la rappresentativa sovietica riuscendo a non essere antipatico.
Ecco che cosa toccava a Dasaev: diventare il nuovo Jashin, l’erede del mito, la prosecuzione dell’allegoria. Uno che si doveva assumere la responsabilità politica prima di quella sportiva: «Senti ragazzo, noi contiamo su di te». È sempre stato un adepto, Rinat. Zitto quando serviva il silenzio, davanti ai microfoni per parlare a nome di tutti quando gli veniva chiesto, compiacente con il Partito e col sistema, sia prima sia durante la nuova rivoluzione cominciata nel 1985, fedele alla linea della chiusura verso il resto del mondo prima e all’apertura poi. Al servizio. Così è diventato il simbolo. L’ha aiutato l’aspetto: alto e magro, fiero, ordinato. Quello che nella Coppa del mondo del 1982 in Spagna lo fece eleggere tra i più belli del Mondiale. La scelta fu delle redattrici del settimanale femminile spagnolo Cambio 16: «Ha qualcosa di tenebroso, ma ispira fiducia. Se è vero che gli uomini sovietici sono i più affidabili, lui ne è l’esempio. È un perfetto padre di famiglia». Poco dopo Rinat si sarebbe sposato con Nela, un’ex campionessa di ginnastica conosciuta all’ospedale, dove entrambi erano ricoverati per un infortunio. Poi avrebbe avuto una figlia, Elmira. Perfetto. Tanto perfetto fino all’88.
Germania allora. Finale, dopo aver eliminato l’Italia. Di fronte l’Olanda. La partita del tramonto, il giorno della resa, il gol di Van Basten. Il 25 giugno 1988, a Monaco di Baviera, Rinat fermo a guardare il vuoto con il pallone che lo supera, con Marco che alza un solo braccio al cielo, con Rinus Michels che si mette le mani in testa, è stata la fine di una potenza sportiva. Quella che ha anticipato la morte della potenza politica e militare. Lo dici adesso che sai quello che è successo, che hai visto la storia. Ma da quel momento non c’è stata più speranza. L’Unione Sovietica del pallone è implosa quando ha visto il traguardo. È stato un caracollare, uno sfaldarsi, un salutarsi sapendo che non ci si vedrà più, perché i russi saranno russi, gli ucraini saranno ucraini, i bielorussi saranno bielorussi. È così che sono arrivati al Mondiale di Italia ’90, accompagnati da un cliché rispettato soltanto per dovere: rigidi, protetti, inguardabili, impenetrabili. Lontani.
C’era sempre Rinat dietro tutti. Sempre lui a coprire. Bari, 9 giugno: Urss contro Romania, come se il destino avesse scelto l’avversario che ti deve sgretolare per dirti: «Mi avete ridotto così, ecco il conto». Coincidenze. Non se ne accorge quasi nessuno: l’Unione Sovietica per la prima volta nella storia dal dopoguerra indossa una maglietta anonima. Non c’è più la scritta Cccp. Quelle quattro lettere che hanno sempre spaventato. Ostentate, sempre. Non c’erano più. Non sarebbero più tornate. Il calcio prima della politica, ancora. Da allora Rinat ha giocato solo per se stesso, imbrigliato nel suo passato. Perché la Perestrojka che l’ha lasciato emigrare in Spagna alla fine è stata la sua condanna.
A Siviglia arrivò il 21 novembre 1988. Contratto per due anni con 22 clausole, 180 milioni di pesetas - poco più di due miliardi di lire - al regime di Mosca. A lui 150mila pesetas al mese, un milione e settecentomila lire: le briciole consentite dalle regole del professionismo a metà voluto dal Cremlino. Due anni d’inferno, senza punti di riferimento, senza poter tornare in una patria che si stava spezzando. Un incidente in auto, l’infortunio alla mano. Alla fine del contratto Dasaev rifiutò il trasferimento al San Gallo, in Svizzera. I dirigenti del Siviglia avevano scoperto che l’incidente non fu un caso. Rinat beveva. Volevano sbarazzarsene. Un altro schianto: il ricovero in rianimazione, la vita in salvo per caso. Era il 1991. Tornò in una casa che non c’era più: il colpo di Stato, Boris Eltsin, Gorbaciov epurato. A Mosca c’era ancora quell’appartamento di due locali: vuoto, perché Nela ed Elmira erano andate via. Altro alcol. La solitudine. La depressione. Per dieci anni Rinat Dasaev, il monumento, il guardiano della Perestrojka, ha fatto la vita del vagabondo.
L’ha raccolto nel 2002 un vecchio amico dei tempi dello Spartak Mosca. L’ha riportato nel calcio.

Nel 2003 Rinat è stato in porta in una selezione di vecchie glorie che giocava contro la squadra dell’associazione ebrei russi. Ha giocato un tempo, poi un malore gli ha fatto abbandonare il campo. Si è rimesso in piedi, gli hanno dato un pallone tra le mani. Oggi Dasaev insegna che il pallonetto perfetto non si può parare.

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