Apartire dalla metà degli anni ’70 gli studi di Renzo De Felice, e dei cosiddetti «revisionisti» hanno dimostrato che il regime fascista godette di un consenso effettivo fra la maggioranza degli italiani. Da allora si sono intensificati gli studi sulla «fabbrica del consenso», ovvero sui mezzi usati per accrescere la propria popolarità, e in particolare quella di Mussolini, che rappresentava sia il fascismo sia l’«italiano nuovo», meta della «rivoluzione».
Sono saggi che partono spesso da una tesi precostituita: dimostrare che l’opinione pubblica, il pensiero degli italiani fu manipolato, condizionato con mille abili artifici. L’intento di una siffatta storiografia vorrebbe essere salvifico, dimostrare cioè che molti, moltissimi italiani non furono davvero fascisti, bensì vittime del sistema, che li condizionava. Si preferisce pensare a un popolo di ingenui plasmabile come cera molle piuttosto che a un popolo il quale - per un certo periodo - condivise le aspettative di rinnovamento, di ordine, di potenza promesse dal regime al costo (ritenuto da entrambe le parti modesto) della libertà. Intendiamoci, la fabbrica del consenso lavorava sodo, e spesso bene: non c’è dubbio che contribuì parecchio a rafforzare l’immagine del regime e del suo duce.
Ma attribuirle ogni colpa, o merito, è come lavarsi le mani dei propri peccati tirando in ballo le responsabilità del diavolo.
Inoltre gli studi che hanno maggiormente attratto i ricercatori riguardano strumenti moderni e a noi vicini, come l’uso propagandistico che venne fatto del cinema, dei cinegiornali, della radio. Oppure, all’inverso, l’antico strumento della manipolazione dell’informazione scritta, che il regime usò massicciamente e con implacabile abilità per condizionare anche le opinioni di una minoranza importante, quella dei lettori. Infine vengono studiati dal punto di vista propagandistico aspetti del regime che erano sostanziali, spesso benigni, e che soltanto di riflesso venivano poi usati per il consenso: l’aumento dell’assistenza sanitaria e della scolarizzazione, la bonifica delle zone malariche, la grande macchina assistenziale e ludica del «dopolavoro» eccetera.
Si è così perso di vista lo strumento principale, in quanto elementare, della fabbrica del consenso: ovvero l’immagine di Mussolini. Né la radio né il cinema, figurarsi la lettura, arrivavano a tutti, specialmente negli anni Venti. E d’altra parte c’era bisogno di un simbolo, di un «marchio» semplice e forte, che comunicasse con immediatezza la sintesi potente e benigna del regime. Quel simbolo non poteva che essere lui, il duce, e lo strumento principale per diffonderlo era il più semplice, il più antico fra i mezzi di comunicazione nuovi: la fotografia.
Pasquale Chessa è partito da questo principio storiograficamente ineccepibile e necessario per confezionare un magnifico volume di grande formato: Dux. Benito Mussolini: una biografia per immagini (Mondadori, pagg. 402, euro 25). Le immagini sono tantissime, a volte inedite, spesso poco viste, quasi sempre significative: sempre accompagnate da un testo efficace che fa di questo libro - oltre che una biografia di Mussolini e del fascismo - uno strumento di studio sul «culto del duce». Che si sia trattato di un culto, spesso spontaneo, non c’è dubbio. Sono noti anche i passaggi che lo resero possibile. In breve: lo Stato liberale nato dal Risorgimento si trovò nella necessità di «fare gli italiani», compito che si rivelò più difficile dell’unità territoriale e politica. Per ottenere lo scopo si instillò nel popolo, a partire dalle scuole e dalle caserme, il culto della Patria (sempre maiuscola e simboleggiata dalla bandiera e dalla dinastia dei Savoia): il libro Cuore è la rappresentazione perfetta di come quell’amor di patria potesse diventare una religione, in seguito esaltata da nazionalismo e Prima guerra mondiale.
Il fascismo si presentò, sin dagli inizi, come erede di quella religione, e - divenuto regime - operò una sorta di sovrapposizione, rappresentata in modo simbolico e perfetto da un cambiamento nello stemma reale: i due leoni che sorreggevano lo scudo sabaudo furono sostituiti da due fasci. Fascismo diventò sinonimo di Patria, di Italia, e il «culto del littorio», come l’ha definito lo storico Emilio Gentile, divenne una vera e propria religione laica, con i suoi riti e i suoi miti. I «martiri fascisti» (squadristi caduti durante gli scontri con i socialisti) vennero considerati alla stregua di veri e propri santi; le date sacre al fascismo - 23 marzo, 28 ottobre - si aggiunsero o si sostituirono a altre feste.
Come tutte le fedi, anche il fascismo aveva bisogno di una sua divinità, e non occorse neanche cercarla: era Lui (scritto sempre con la maiuscola), il demiurgo, il Duce: «L’Uomo che venendo da un’umile famiglia», recitavano i testi scolastici delle elementari, «il Figlio del Fabbro che con indomita energia e amor di Patria aveva salvato l’Italia dal pericolo bolscevico e l’aveva avviata sul suo immancabile destino di Grandezza e di Gloria».
Mussolini ricevette il potere dalle mani del re, nel 1922, indossando antiquate ghette di sapore ottocentesco che assimilavano la sua immagine più a quella dei conservatori liberali che a quella di un rivoluzionario. Poi l’evoluzione fu rapida, soprattutto a partire dal 1929, cioè dal Concordato con la Chiesa che gli valse la definizione papale di «Uomo che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare». Il motto «Il duce ha sempre ragione» divenne una vera e propria dichiarazione di fede, come poi il consequenziale «Credere Obbedire Combattere».
Gli artisti fecero a gara con il popolo nell’interpretare il volto di Mussolini nei modi più solenni e amorevoli, producendo anche dei capolavori, come la stupenda Testa in thayahtite del futurista Thayaht; quanto al popolo, ho visto con i miei occhi, nel deposito di un archivio, il dono mandato da una donna meridionale a Mussolini: un ritratto, a grandezza naturale, cucito dalla stessa donna con i propri capelli. Lo stesso duce perfezionò di anno in anno la propria immagine cesarea e volitiva, prima eliminando i capelli (borghesi e poco virili), poi aumentando il cipiglio guerriero a mano a mano che il regime si faceva sempre più militaresco.
L’importanza che Mussolini dava alla diffusione della propria immagine è dimostrata dalla censura preventiva cui sottoponeva le foto, scartando accuratamente quelle che non rispecchiavano l’aspetto voluto, di volta in volta paterno, fiero, autoritario, alla mano. Predilette erano naturalmente le divise, ma Mussolini anticipò anche una tendenza che si sarebbe affermata in seguito presso i leader di tutto il mondo, anche democratici: farsi raffigurare con un copricapo che simboleggiasse la professione cui voleva rendere omaggio, pompiere o minatore che fosse; raggiunse l’apoteosi fotografica con le celebri immagini a torso nudo mentre trebbiava il grano, ma amava anche diffondere immagini familiari non convenzionali, mentre giocava al pallone con i figli, per esempio. O, meglio ancora, mentre vezzeggiava un leoncino che gli avevano regalato, prima che diventasse troppo grande per poterci scherzare.
Nel libro di Chessa c’è tutto questo e molto di più, fino alle tragiche foto di piazzale Loreto.
www.giordanobrunoguerri.it
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.