Molti elettori di Berlusconi attendevano con animo sospeso e interessato ma sereno la grande sfida del leader alla magistratura. Berlusconi li ha delusi. Ma essi hanno capito. Egli ha rinunciato a formalizzare il conflitto tra Parlamento e magistratura, un vero conflitto istituzionale su chi comanda in una democrazia che è uno Stato di diritto: se il Parlamento o i giudici. È una patologia inedita nella storia delle democrazie una magistratura che è un potere definito dal Financial Times come «assoluto». La sfida a Matrix ha mostrato che Berlusconi comprende la gravità del gioco che la magistratura ha messo in campo. E sa bene che, se il suo elettorato reggerebbe la prova, quello del Partito democratico non terrebbe.
Alle elezioni di questo Parlamento il Popolo della libertà si è presentato in condizioni diverse da quelle che i suoi partiti avevano avuto in tutte le elezioni precedenti. In quelle Berlusconi si è dimostrato come colui che difendeva dall’egemonia comunista le istituzioni e la democrazia italiana.
Ora le cose sono molto più gravi, perché è in crisi il sistema Italia: non solo sul piano politico, ma su quello economico, sociale, finanziario. È la crisi della vita, non quella della libertà, il tema che Berlusconi ha posto all’elettore e che l’elettore ha compreso.
L’elettore ha affidato al centrodestra l’onere dello Stato, la cui figura era da decenni collocata a sinistra dai comunisti e dai democristiani. Ora stava al centrodestra guidato da Berlusconi il compito di esprimere una direzione culturalmente diversa da quella originata dal Pci e dalla Dc. Era una scelta assai diversa da quelle precedenti, perché partiva dal fatto che il popolo aveva ormai compreso che la sinistra, anche nella forma del Pd, era un vuoto politico. Il partito di quei magistrati che sono contro Berlusconi avrebbe goduto se Berlusconi avesse posto il dito accusatorio sulla magistratura come insieme. Ciò avrebbe permesso al partito delle toghe anomali di mettere in difficoltà il Partito democratico e spingerlo verso il braccio armato del giustizialismo, Antonio Di Pietro.
Questa volta la manovra delle intercettazioni tende a riportare il clima di guerra civile in Italia perché il Pd è uscito dalle elezioni troppo debole per poter assumere, sia pure dall’opposizione, la funzione di Stato. Destra e sinistra erano andate alle elezioni senza attacchi personali tra i leader per permettere una collaborazione formale sia nella gestione del Parlamento sia nelle riforme della legge elettorale ed, eventualmente, della Costituzione.
Dalle elezioni politiche è risultato che il Pd non è una forza politica capace di avere la fiducia di un elettorato che vuole la potenza dello Stato e il governo dell'economia. Il tempo dunque appartiene al centro destra, è la sua ora, ma è evidente che il governo Berlusconi, anche con il linguaggio di Giulio Tremonti, ha creato uno spazio di intesa tra il linguaggio della destra e quello della sinistra. La possibilità di salvare l’Italia spetta a una collaborazione democratica che era già in corso e che ora magistrati anomali hanno voluto interrompere, mettendo Veltroni in una situazione impossibile, quella di non poter trovare il suo spazio tra Berlusconi e Di Pietro, tra il governo e la piazza, tra le istituzioni e la magistratura anomala. Se Berlusconi avesse formalizzato il conflitto con la magistratura, Veltroni sarebbe finito nelle braccia di Di Pietro. L’elettorato del centrodestra aveva invece approvato la collaborazione tra i due maggiori partiti. Pubblicando le intercettazioni sulla vita personale di Berlusconi e dei suoi ministri raccolte mediante intercettazioni, è stata violata ogni certezza del diritto privato e del diritto pubblico. La magistratura anomala è un problema per la democrazia, sia per la destra sia per la sinistra. L’elettore non ha desiderato, votando Berlusconi, un nuovo conflitto con il linguaggio della guerra civile. Comprende quindi che le sorti del Partito democratico, che la magistratura anomala tiene «in gran dispitto» interessino anche il centrodestra.
Gianni Baget Bozzo
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