Quel pentimento tardivo dei paladini di Ciancimino jr

Ora che si è scoperto che la voce del ventriloquo era taroccata, è tutto un correre ai ripari. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, lascia la porta aperta alla dietrologia più dietrologa; i cronisti gli chiedono: qualcuno manovrava Massimo Ciancimino? «È una cosa che si può pensare», risponde lui. Intanto lo fa arrestare dopo averlo spremuto come un limone. E mostra il metro della correttezza: «Noi sempre rigorosi». Intendiamoci, ogni pentito dev’essere valutato carta per carta, documento per documento, rivelazione per rivelazione, ma non s’è mai capito bene che cosa fosse Ciancimino. Un pentito? Un dichiarante? Un testimone? Il ventriloquo del defunto padre Vito? Ma sì, era quello il ruolo ad personam di Ciancimino junior, uno strano prodotto del made in Italy giudiziario. In questa terra di nessuno Ciancimino ha parlato a lungo di tutto, da Berlusconi alla strage di Ustica. Giocava col tempo e con la memoria, con i documenti, veri, verosimili o falsi non si sa a questo punto, che il padre gli aveva lasciato da qualche parte. Spostava una botola e s’immergeva nella macchina del tempo riemergendone sempre con pacchi di carte. Ora Ingroia dice che potrebbe esserci un burattinaio dietro di lui, ma è davvero strano che non si sia fatto venire i dubbi prima, quando Ciancimino raccontava di Berlusconi o di Dell’Utri.
Forse Ingroia aveva verificato i pensieri del figlio di don Vito. E non aveva trovato nulla di anomalo. Strano, perché gli “iconoclasti” della procura di Caltanissetta avevano fatto a pezzi «l’icona - copyright, ancora Ingroia - dell’antimafia». Sia pure con un prudente «quasi» davanti. E al processo d’appello di Dell’Utri, Ciancimino era stato snobbato dai giudici perché ritenuto «inattendibile». Non bastava ancora. Solo in Italia il pentitismo, sempre che lo si possa chiamare così, si trasforma in una saga, con un ragazzo che rincorre il fantasma del padre defunto. Caltanissetta non ci stava a questo gioco, e Palermo aveva reagito con preoccupazione alle prese di posizione non ortodosse dei colleghi. Un intrigo siciliano che più siciliano non si può.
Ora è Palermo a correre ai ripari e ad accelerare, quasi bruciando sul tempo e tagliando la strada a Caltanissetta. Anche Marco Travaglio si attrezza per salvare il salvabile ed evitare, come si dice in questi casi, di buttare il bambino con l’acqua sporca. Ma è possibile un’operazione del genere? Sì per Travaglio che sul Fatto fa una considerazione assai rischiosa: «Tutti e 150 i documenti consegnati dal figlio dell’ex sindaco di Palermo sono finora risultati autentici e per questo sono entrati in vari processi (per esempio quello a carico del generale Mori per la mancata cattura di Provenzano) e indagini (a partire da quella sulla trattativa ’92-94) come indizi o prove».
Certo, provare a distinguere, a non generalizzare, a pesare in concreto può essere positivo, ma i conti in questa storia non tornano. Le contraddizioni sono sparpagliate ovunque eppure Ciancimino, protetto da una scorta messa a disposizione dallo Stato, non è stato fermato prima. Quando attaccava Berlusconi con il solito sistema tortuoso e ambiguo: prima, due anni fa, in un’intervista al Giornale aveva detto che il Cavaliere non c’entrava per niente con suo padre e con la mafia. Poi, articolo dopo articolo, l’aveva tirato in mezzo e con lui aveva chiamato in causa Marcello Dell’Utri.
Ora su Repubblica Attilio Bolzoni seppellisce sotto la pietra della sue contraddizioni Ciancimino. Ma dovrebbe contestare qualcosa anche a Giuseppe D’Avanzo che, a febbraio dell’anno scorso, sempre su Repubblica, scriveva: «I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza diretta, la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del consiglio». Appunto. Una testimonianza così diretta che ogni volta Ciancimino junior scomodava il defunto padre e ritrovava documenti su documenti rispuntati come funghi chissà da dove.
Oggi D’Avanzo tace. Chissà. Forse duellerà con Travaglio. Non è la prima vota che i due si combattono senza esclusione di colpi.

Forse anche Repubblica ha stabilito che un ventriloquo non può riempire da solo l’album dei misteri d’Italia: il delitto Moro, la cattura di Totò Rina, la latitanza di Bernardo Provenzano, gli investimenti mafiosi a Milano2, fino a disegnare il surreale quarto livello - non a caso il titolo del nuovo libro di Maurizio Torrealta - come se il terzo non bastasse da solo a creare un polverone più che sufficiente.
La storia d’Italia con il copia e incolla è arrivata, almeno in questo caso, al capolinea. E rischia di rimanere orfana di padre. C’è chi corre ai ripari. E chi, semplicemente, corre il più lontano possibile.

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