Don Raffaele Fusco, mio nonno, era un fondista del gioco dazzardo (48 ore consecutive di «zecchinetta» se le faceva quasi tutte le settimane), sapeva tutto lInferno a memoria e anche il 5º Canto del «Purgatorio», nel quale Dante incontra Pia dei Tolomei, perché Pia si chiamava una fanciulla che aveva amata nelladolescenza. Quanto al «Paradiso», ne provava le beatitudini in un sogno ricorrente, nel quale assisteva, giocando a carte, al naufragio di un bastimento carico di preti, frati e monache. Non era certo un sogno da clericale.
Don Raffaele era anche un rinomato proverbiofilo. Conosceva e citava, in modo pertinente, innumerevoli proverbi. Fino al 1875, ossia fino ai suoi 32 anni, qualsiasi giovanotto che amoreggiasse fuori dalla cinta daziaria, si sentiva dire: «Arrecuordate, guagliò! La moglie e i bovi per arare - nel tuo paese li devi pigliare!». Come si vede, mio nonno, oltre a conoscere a fondo la proverbistica, gli adagi li manipolava in modo da farli suoi. «Chi la fa laspetti?». No. «Se combini una malazione - per te, in arrivo, cè un mascalzone». «Chi trova un amico trova un tesoro?». Nemmeno. «Trovare un amico sincero e schietto - è come trovare di scudi un sacchetto». E via così.
Ma a partire dalla primavera del 1875, i giovanotti che avevano la morosa in una località diversa da San Lorenzello, incontrando mio nonno, non venivano più messi in guardia col proverbio di circostanza. Don Raffaele si limitava a un bonario: «Come va la caccia fuori riserva, Peppino?». Oppure: «Tenelo a mente, Ciccillo! Se sei certo chè sincera, va bene pure una moglie forestiera!». Come mai un cambiamento così radicale? A cosera dovuto quellimprovviso passaggio al rovescio della medaglia?
Il motivo della metamorfosi fu chiaro quando Petruccio, unico spazzino comunale di San Lorenzello, raccontò di aver visto Don Raffaele in conversazione «co a maestra forastiera», sullora del tramonto, sulla solitaria strada del cimitero. E molti giovani che erano stati redarguiti da mio nonno perché serano fidanzati e anche ammogliati con «zite» (zitelle, ossia signorine) dei dintorni, considerarono una clamorosa nemesi, qualche mese dopo, il suo matrimonio con Giuseppina Romerio. Che un certo giorno era piovuta a San Lorenzello addirittura da Corno. Dovera nata nel 1852 e dove aveva insegnato in una scuola elementare fino a che, accusata di «propagandare fra i suoi scolari lidea socialista», era stata estromessa dallinsegnamento. Piccola, bionda e intrepida, aveva fatto le valigie, anzi, la sua unica valigia, mettendo fra la biancheria lUtopia di Tommaso Moro e il Codice della Natura di Morelly. Ed era scesa giù in unItalia che solo da quindici anni non era più Regno delle Due Sicilie. A San Lorenzello aveva vinto un concorso per linsegnamento nelle elementari femminili e aveva scoperto che Don Raffaele Fusco, suo direttore didattico, teneva sempre a portata di mano lUtopia di Tommaso Moro e il Codice della natura di Morelly.
Il matrimonio civile fu celebrato in una luminosa mattina di giugno. E mezzo paese fece ala ai due sposi che raggiunsero, a braccetto, la vecchia casa di pietra grigia dei Fusco. Pochi altri matrimoni, a San Lorenzello, erano stati altrettanto festeggiati. Dimenticò di aver sentito ripetere da suo padre, da suo nonno e dal suo bisnonno, che il rito matrimoniale fa solo una mezza moglie. E che la moglie diviene intera solo quando porta in tavola al marito un piatto di maccheroni cotti «come San Gennaro comanda».
Ma se il progressismo sociale di nonna Giuseppina combaciava con quello di nonno Raffaele, la sua esperienza in fatto di maccheroni non poteva combaciare con lintransigenza del marito nel pretendere unineccepibile «caudiatura». Ossia, la cottura esatta al secondo dei vecchi vesuviani. Per il semplice motivo che la maestrina dagli occhi celesti era venuta giù, con 30 ore di treno, da una terra dove lunica alternativa al predominante risotto (polenta a parte, sottintesi gli gnocchi di patate) erano le tagliatelle, le pappardelle, le lasagne, i cappelletti ripieni e qualche altro tipo di pasta fatta in casa. Tirando la sfoglia col matterello. Lo stesso paventato dai mariti che rincasavano sbronzi. Mentre lassù, attorno al 1870, la pasta di grano duro del meridione, spaghetti, vermicelli, rigatoni, bucati, penne e via dicendo, erano più rari delle banane in Groenlandia. Quindi, Don Raffaele, che i laurentini consideravano un giusto, un loico, avrebbe dovuto aspettare, con molta doverosa pazienza, che la sposa venuta dal riso entrasse in confidenza con gli spaghetti.
Ma nel Sannio cè un antico adagio che dice «li maccaruni squaquaraquanti fanno incazzare pure li santi». E nonno Raffaele era un galantuomo, ma non un santo. Così che non riuscì a mettere in pratica la tolleranza che, con ogni probabilità, la ragione gli suggeriva. Nonna Giuseppina si applicava, giorno dopo giorno, alla grossa pignatta di coccio marrone, con quella tenacia che tanto ha contribuito ad elevare il reddito pro capite dei lombardi, nelle province di Como e Varese. Ma ad ogni piatto di spaghetti scotti che gli arrivava davanti, lespressione di Don Raffaele si faceva più cupa e rancorosa. Erano passati quindici giorni, dal giorno che il sindaco di San Lorenzello, i fianchi cinti dal tricolore, aveva celebrato il suo matrimonio (giudicato scandaloso dal parroco e dai colli torti) e aveva ancora una mezza moglie! Per averla finalmente intera, secondo la tradizione, ebbe lidea di un ricatto sessuale, ingentilito da quattro endecasillabi.
E una mattina, sul tavolo di marmo, in cucina, la nonna comasca trovò una busta gialla appoggiata a un cestino di pomodori. Lapri e vi trovò un biglietto in cui lesse:
Se a pranzo trovo moscio lo spaghetto/ sarò altrettanto moscio anche nel letto.
Nonna Giuseppina non era, in amore, né una Semiramide, né una sofonisba. Ma aveva pur sempre 26 anni. E due giorni dopo Don Raffaele ebbe il suo primo piatto, fumante e rosseggiante, di maccheroni cotti «come San Gennaro comanda».
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