Il destino della sinistra italiana è scritto nella sua origine storica che ha visto la vittoria del massimalismo e la sconfitta del riformismo. Il presidente della Repubblica rendendo omaggio alla memoria di Marco Biagi ha invitato la sinistra a riflettere sull'opera del giuslavorista ucciso dalle Brigate rosse. Nicola Rossi, economista e deputato eletto nelle file dell'Ulivo che è uscito dai Ds denunciando la inesistente cultura riformista del principale partito di governo, ha ammesso sconsolato: «Ho i miei dubbi che sarà seguito l'invito del presidente della Repubblica, perché la sinistra italiana è quella che è, molto lontana da quanto ha suggerito Napolitano». Lontana dal riformismo, vicina al massimalismo. L'attuale ministro del Lavoro, Cesare Damiano, che è considerato un moderato, non ha forse definito la legge Biagi «una controriforma del mercato del lavoro»?
Il problema della sinistra di casa nostra è di ordine culturale: come può diventare riformista se da sempre si è nutrita di una cultura anti-riformista? La memoria, il nome, l'opera, la legge di Marco Biagi imbarazzano la sinistra di governo - per non parlare della Cgil - perché raccontano una storia tutta riformista. Il riformismo, a differenza della cultura di estrazione comunista, si fonda sull'importanza dei fatti e sul primato dei mezzi rispetto al fine: là dove, invece, il massimalismo mette tra parentesi i fatti e predica il primato del fine su tutto e tutti. Questo pensiero da archeologia non solo industriale, ma anche filosofica e politica è il cuore della vecchia dottrina marxista che è ancora in servizio. Il suo funzionamento si basa su un meccanismo elementare: i fatti vanno adottati quando danno ragione alla teoria, invece quando contraddicono la teoria vanno ignorati, cambiati, manipolati perché la teoria - ossia il caro vecchio Partito - non ha mai torto, ha sempre ragione. Ecco, quando Nicola Rossi, angosciato, riconosce che la sinistra non è nel XXI secolo e la sua cultura radicale è antiquata dice implicitamente ciò che qui rendiamo esplicito: o i fatti si adeguano alla teoria o non contano nulla.
Ecco perché Marco Biagi «imbarazza». Perché era uomo di fatti e non di ideologia, lavorava con metodo e scrupolo e non con parole d'ordine. Marco Biagi è di per sé un «fatto», ossia una storia, un'opera e l'imbarazzo non solo della Cgil di ieri e di oggi, ma dell'intera sinistra si spiega perché non si vuole riconoscere il «fatto» Biagi.
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