Torino - Peppino Garibaldi e la Cinquecento Fiat. Questo 4 luglio è davvero una cosa seria per l’Italia, riesce a unirla tutta, dall’Alpi all’Etna, festa di popolo, anniversario, celebrazione, nostalgia di uomini, eroi, eroine, simboli e miti di tempi che furono. Torino in questo senso moltissimo ha dato e qualcosa ha conservato, dalle vie con i portici ai bar sabaudi, dai gianduiotti ai modi falsi ma cortesi e da «esagerùma nen» (non esageriamo).
Torino, dunque, si è rimessa l’abito migliore e ha chiamato a raccolta mezzo mondo per l’evento dell’anno. Se la Fiat va male va male l’Italia. Si diceva così, lo slogan piaceva a casa Agnelli e ai colletti bianchi ma veniva fischiato dai contestatori, le tute blu, le penne rosse, da Fortebraccio in giù. Oggi, il sindaco della città, Sergio Chiamparino che di quei girotondi faceva parte, ha detto addirittura che «torna l’orgoglio di lavorare alla Fiat» (per la cronaca la 500 è fabbricata a Tichy, Polonia, più in là di Asti), e Tonino Regazzi, segretario generale dei metalmeccanici Uil, ha proclamato «ne ordino una, di colore rosso». È un gran dire, un gran bel vedere, ce ne sono di tutti i tipi, di tutti gli anni, lucidate, parcheggiate nelle piazze, coccolate, è il tricolore che torna a sventolare su tutto e tutti, in mezzo a turbolenze e scaloni, con le tasse che incombono e i dodicimila euro che rappresentano la cifra base di acquisto per la vettura del passato e del futuro, la visione della vita, un atteggiamento, un’espressione, un’idea, un mondo, tutta questa roba qui in 355 centimetri di lunghezza, centosessantacinque di larghezza e centoquarantanove di altezza.
Eppure Torino, ieri, dopo una giornata bellissima con il cielo azzurro spazzato dal vento che pettinava il Po con quel suo color non meglio identificato, Torino, dicevo, sembrava ancora una volta un’altra città, come le era accaduto un anno fa, con i Giochi delle Olimpiadi invernali, come le accadeva ai tempi degli Agnelli regnanti e non al tramonto, o addirittura al tracollo. Perché questa era la verità, una fabbrica che odorava di morte (lo ha detto Marchionne, il primo grande manager Fiat che non ha conosciuto Gianni Agnelli, subendone l’attrazione e anche il condizionamento), una azienda che aveva perso la testa come uno dei suoi capi tra donne, finanza e moda, una città reduce, una famiglia che si reggeva sul fascino del patriarca, sul pragmatismo del di lui fratello, prima di lacerarsi tra le ultime beghe ereditarie.
Ma ieri Torino si è ridesta, a segnalare che si può fare, che si deve fare, basta volerlo, più facile forse con un oggetto che con le persone, perché il mito ritorna, desiderato.
Cinquant’anni orsono la pubblicità della Cinquecento faceva immediatamente intuire il prima, il durante e il dopo: l’uomo, in rigorosa giacca, camicia e cravatta, stava quasi nascosto, in piedi, oltre la vettura; di qua, seduta mollemente sul prato, una fanciulla vestitissima e un po’ afflitta volgeva lo sguardo verso un destino improbabile. Oggi non ci sono più i chili di una volta, non c’è più nemmeno la lira, l’inflazione galoppa, anzi va oltre il muro del suono, farebbero 27.
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