Quella borghesia milanese che si ritrova nelle urne

Leggo e rileggo i nomi dei pretendenti principali alla guida di Milano, quando terminerà il mandato della signora Moratti. All'ipotesi del Moratti-bis si contrappongono, a sinistra, oltre a Valerio Onida, altri due nomi eccellenti: quello di Stefano Boeri e quello di Giuliano Pisapia.
Moratti, Boeri, Pisapia. Lasciando stare le persone, che sono tutte eccellenti, e i rapporti personali (uno dei tre è mio amico, e non per ragioni politiche) vorrei soffermare l'attenzione del lettore soltanto sui nomi. Moratti, Boeri, Pisapia.
Qual è la particolarità intrigante? E' che si tratta di tre nomi importanti, tre nomi storici di questa città, tre famiglie della grande borghesia che è stata protagonista della nostra città per un lungo tratto della sua storia.
Una borghesia che è stata fascista e antifascista, ha prodotto il boom economico e poi lo ha distrutto: una borghesia-Kronos, insomma, che ha sempre divorato i propri figli, ma anche una borghesia-Fenice, capace ancora una volta di rinascere sulle proprie ceneri.
Per me, che vengo da altre zone geografiche e sociali (famiglia contadina quella di mio papà, popolana quella di mia mamma) la parola borghesia cominciò ad avere un senso quando mi trasferii a Milano per frequentare l'università.
Ne provai un immediato rispetto. E' gente dura e volitiva, capace di formare figli atti alle decisioni importanti e alla leadership, ospitale ma non godereccia, amante della ricchezza ma non dello sfarzo, con molte tracce di calvinismo e perciò poco duttile.
La incontro nei romanzi, nelle biografie di personaggi di tanti decenni fa, e mi sembra la stessa di oggi. Variano le idee politiche e filosofiche, forse, variano le opinioni in materia di religione e di società, e tuttavia senza vere, profonde differenze: il modo di pensare e di pensarsi rimane simile. Basta sentire una sola parola, o l'intonazione della voce, basta vedere certe bluse, certi golfini, certe camicie, certe biciclette, certi androni, certi nasi, certe conversazioni in certi caffè, certi scambi di frasi tra madre e figlia (nella borghesia milanese le figlie adolescenti escono a passeggio con la madre, gli abiti sempre intonati); basta insomma un niente e la si riconosce.
I suoi rampolli sono avvocati, giudici, architetti importanti, editori, imprenditori di successo, primari ospedalieri. Molto di loro sono spesso abbronzati.
E oggi eccoli ancora qui, e noi milanesi dovremo scegliere uno di loro. Tutto questo, al di là del valore delle singole persone, mette un bel po' di tristezza. Il mondo ha girato su sé stesso tante volte, in questi anni, e noi milanesi siamo ancora qui, a fare i conti con un pezzo di storia vecchia.
Dopo venticinque anni in cui la città si è meticciata e rimeticciata al punto che risulta strano constatare come ancora nel 2010 la città non venga pensata - dai suoi amministratori e da tutti coloro che svolgono in essa un ruolo autorevole - sulla misura di questa sua nuova comunità; in anni nei quali tutto è destinato a cambiare di nuovo, a partire dallo stesso skyline fino alla composizione etnica delle sue vie, ebbene: dopo tutto questo eccoci ancora, nunc et semper, con i soliti, vecchi nomi.
E' come se la mia amata Milano cercasse di gestire il proprio cambiamento senza traumi, senza scosse, come se questo fosse davvero possibile.
Molti lamentano che i talenti prodotti da questa città, le sue energie, le sue eccellenze non vengano valorizzate.

Ma questi talenti appartengono e apparterranno sempre di più ad altri contesti umani e sociali, quasi sempre lontanissimi dalla Cerchia dei Navigli e dai suoi facoltosi abitanti.
Non sono i candidati a preoccupare, è Milano a preoccupare: una città che, nella scelta dei suoi candidati sindaci, dimostra di non sapersi pensare in termini di vera novità.

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