Quella circolare del ministro Dc: prendete le impronte agli istriani

da Milano

La domanda è in un editoriale dell’ultimo numero di Famiglia cristiana, a pagina 23: «Perché in mezzo secolo nessun governo democristiano, nessun ministro democristiano (nemmeno l’ottimo Pisanu, al governo con Berlusconi), ha mai proposto una simile scemenza?». La scemenza per chi scrive è naturalmente «la proposta del ministro Maroni di rilevare le impronte digitali di tutti i rom, compresi i bambini». Per trovare la risposta bisogna spulciare tra gli archivi e ripescare una vecchia circolare, precisamente la numero 224/17437 del 15 maggio 1949. Il documento, inviato a tutte le questure d’Italia, impone proprio «la schedatura e il rilevamento delle impronte digitali» ai profughi italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. In calce, la firma di Mario Scelba: ministro dell’Interno, per decenni tra i maggiori leader della Democrazia cristiana e per tre anni, dal 1969 al 1971, presidente del Parlamento europeo. Lo stesso Parlamento (a dire il vero i deputati erano diversi, e i Paesi membri solo sei: Italia, Francia, Belgio, Germania Ovest, Paesi Bassi e Lussemburgo) che giovedì ha censurato l’Italia.
Più che per la gaffe del settimanale cattolico, questa storia è interessante perché offre diversi punti di contatto fra passato e presente. Primo: anche allora la misura fu presa per ragioni di sicurezza. Il governo temeva che fra i profughi potessero nascondersi degli agenti segreti della Jugoslavia di Tito. Secondo: anche allora gli schedati non furono affatto entusiasti. «Eravamo cittadini italiani, e quando la nostra terra era passata a un altro Paese avevamo abbandonato subito le nostre case e tutto quello che avevamo – racconta oggi Lucio Toth, presidente dell’associazione degli esuli –. È chiaro che, quando i carabinieri si presentarono nei campi profughi, molti protestarono. Ma tutti, nonostante la delusione, alla fine accettammo: avevamo rinunciato a tutto per vivere in Italia, era giusto che rispettassimo gli ordini dello Stato italiano».
Lo Stato, a dire il vero, a un certo punto esagerò. Un giorno del giugno 1949, un brigadiere e due carabinieri si presentarono alla curia di Spoleto e chiesero di monsignor Raffaele Radossi, profugo istriano e arcivescovo. Il religioso, quando il militare gli porse il tampone imbevuto d’inchiostro, non la prese particolarmente bene. E subito dopo scrisse al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi: «Vengo a sapere proprio in questi giorni che il Ministro dell’Interno (...) ha ordinato a tutti gli uffici politici delle questure di effettuare al più presto un accertamento individuale di tutti i profughi giuliani e dalmati residenti in Italia, istituendo per ognuno una scheda segnaletica con relativa fotografia ed impronte digitali. (...) La prego di provvedere al ritiro immediato della suddetta circolare».
De Gasperi chiamò subito Scelba e fece ritirare la circolare.

Ma era passato un mese dall’inizio del censimento, «e ormai migliaia di esuli erano già stati schedati», racconta Toth. «Ma la cosa importante, l’unica che per noi contava davvero, era vivere in Italia. Lo so, oggi è difficile da capire».

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