Quella macchina del fango che porta sempre ad Arcore

Dev’essere il nome della strada, via Gradoli, a evocare, dagli anni terribili del sequestro Moro, dietrologie e complotti, con contorno di servizi deviati e strategia della tensione. Manca solo la seduta spiritica, ma magari arriverà. Per il resto c’è tutto, nelle «analisi informate» di Repubblica, il Fatto e l’Unità.
C’è naturalmente Silvio Berlusconi, deus ex machina del ricatto all’ex governatore del Lazio Piero Marrazzo. Ci sono i suoi «giornalisti di corte», copyright Marco Travaglio, in testa Alfonso Signorini il direttore di Chi. Immancabile c’è pure la camorra, perché, illumina i lettori Concita De Gregorio, gli investigatori cercavano il boss latitante dei casalesi Iovine quando hanno trovato Marrazzo, seguendo le tracce di Cafasso, il pusher che «conosce bene Marrazzo, le sue esigenze, le sue abitudini», quello che contatta Libero per vendere il video, che alle due croniste del quotidiano dice di temere per la propria vita e che poi, ma guarda un po’, muore. Che c’entra? Tutto c’entra perché tutto si tiene, nella trama orrenda che deve portare a Milano, anzi meglio, ad Arcore. Se la si guardasse da qui, da Fondi, «il comune infiltrato dalla camorra», avverte Concita, «i trans diventerebbero meno rilevanti».
Ecco la via. «L’affaire Marrazzo non è una storia di sesso e il sesso non è il focus della storia» scrive Giuseppe D’Avanzo. «Pare che uno si diverta a tirare in ballo Silvio Berlusconi anche nel caso Marrazzo», ironizza Marco Travaglio, e invece no ma tocca farlo, visto che «il presidente del Consiglio ha fatto tutto da solo». Chissà, magari prima di scrivere si son sentiti. L’assunto è quello del titolo di Repubblica: «La macchina del fango partita da Milano come un manuale di killeraggio politico». Riassunto, il ragionamento, pardon, la ricostruzione, è la seguente: il premier voleva ricattare Marrazzo, è lui «il mattatore». Tutti gli altri sono pedine in mano sua, burattini. I carabinieri che «obbligano Marrazzo a calarsi i pantaloni» per poi fotografarlo, il direttore di Chi che riceve l’offerta di acquistare il video e non lo compra. E la telefonata di Berlusconi a Marrazzo è solo il colpo di teatro finale, il cappio che si stringe attorno al collo del governatore, che da quel momento è nella «piena disponibilità» del premier. Movente? Ovvio: far fuori gli avversari, e via a rivangare il caso Boffo, il caso Mesiano, e dentro buttiamoci pure Veronica Lario e Gianfranco Fini, che tutto fa brodo, con il risvolto quasi ironico che citato fra i quotidiani alla corte di Re Silvio finisce pure il Riformista, che sarà pure di sponda sinistra, ma ha la sfortuna di avere lo stesso proprietario di Libero, il gruppo Angelucci. La prova del complotto? Eccola: ad almeno un paio di testate, secondo i verbali dei ricattatori, il video ha fatto gola, da Libero a Panorama.
Ma come in ogni delitto, qualche tassello non torna. Per esempio l’sms che avvertiva del video di Marrazzo e che alle ore 15 del 25 settembre scorso è arrivato sul telefonino, fra gli altri, di D’Avanzo.

Perché il mastino delle inchieste che ha riempito pagine sulle feste private del premier e con interviste a veline, fidanzati ed escort, dopo averlo ricevuto non ha indagato? È la macchina del fango, baby, ma a volte funziona al contrario.

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