In quella mappa tutto l’orgoglio dei genovesi

In quella mappa tutto l’orgoglio dei genovesi

È esposta a palazzo Tursi una mappa del Mediterraneo che non può fare a meno di suscitare in qualunque genovese che ami la sua città opposti sentimenti di orgoglio e di rabbia. Vi sono infatti rappresentati i domini genovesi dal 13° al 15° secolo, epoca in cui i nostri conterranei, dotati di poderosi attributi (nulla a che vedere con la Genova piagnona che conosciamo oggi) ma anche di un fitto pelo sullo stomaco, gettavano le basi della loro futura grande potenza economica. Intraprendenti cittadini si consorziavano per armare navi allo scopo di commerciare con i vari paesi del bacino del Mediterraneo ma i confini tra i mestieri del mercante, del pirata e dell'esploratore dovevano essere piuttosto indefiniti se alcuni testi statunitensi descrivono Colombo come «Genoese pirate».
Comunque sia questi avventurosi concittadini iniziarono nel medioevo, tra pericoli di ogni sorta, a navigare lungo tutte le coste del Mare Nostrum per trovare luoghi adatti ai loro traffici. Dove i porti erano in posizione favorevole perché vi giungessero le merci dall'interno del paese o presso lo sbocco di vie carovaniere stabilirono delle basi commerciali, impiantandovi attività che favorissero l'acquisto, lo scambio e la vendita delle merci. Così facendo, portarono a Genova e nel resto d'Europa sete, spezie, pietre preziose e schiavi. Viaggiavano sulle nave genovesi merci esotiche (non si chiamavano ancora «etniche») che facevano della nostra città un centro assai più cosmopolita di quanto non sia oggi, nell'era della globalizzazione. Nel 1348 viaggiò anche su navi genovesi provenienti da Caffa, sgraditissimo ospite, il bacillo della peste che si diffuse poi per tutto il continente, mietendo 25 milioni vittime.
Le basi commerciali, chiamate fondaci (dall'arabo funduq, magazzino) non coincidevano necessariamente con conquiste territoriali, limitandosi sovente ad un quartiere della città vicino al porto mentre altre volte i «mercanti» che allestivano poderose flotte con equipaggi armati fino ai denti erano in effetti la «longa manus» della Repubblica.
La carta di Palazzo Tursi ci informa che c'erano fondaci genovesi in Corsica, nelle Baleari, sulla costa settentrionale dell'Africa (Ceuta, Bona, Bugia, Gerba, Tabarca, Tripoli) ma soprattutto, fittissimi, nell'area degli odierni stati della Siria, Libano e Israele. E poi i nostri erano presenti a Cipro, lungo tutte le coste della odierna Turchia e ben addentro nel Mar Nero dove le pregiate merci dell'Estremo Oriente arrivavano dopo un estenuante viaggio attraverso le steppe.
Questa capillare presenza genovese nell'area mediterranea ci riempie di ben giustificato orgoglio, al pensiero che una piccola ma pugnace repubblica fosse in grado di assumere un ruolo di importante «operatore economico», come si direbbe oggi, difendendo le basi acquisite con le unghie e coi denti il che, in termini pratici, significava combattere gli agguerriti concorrenti, primi fra i quali le altre repubbliche marinare: Venezia, Pisa e Amalfi. E siccome ricchezza e potere viaggiano a braccetto, i genovesi, rispettati e temuti Paperoni dell'epoca, non furono troppo danneggiati dai cambiamenti di «padrone». Ne è un esempio la colonia di Pera a Costantinopoli dove l'avvento dei musulmani con la vittoria di Maometto II sui cristiani nel 1453 non segnò automaticamente la fine dell'egemonia commerciale genovese nella zona, anche se è legittimo il sospetto che qualche oneroso accordo con i nuovi venuti possa aver favorito il mantenimento delle posizioni acquisite ancora per un certo tempo.
L'orgoglio trova nuovo impulso al pensiero che molte delle cose bellissime che a Genova si custodiscono, sono giunte qui su vascelli di mercanti genovesi. Così le chiese e i musei si sono arricchiti di reliquie, di oggetti d'oro e di argento, di delicati manufatti tempestati di pietre preziose, di statue e di monete antiche. La riflessione che più che come collezionisti i nostri antenati si comportassero come saccheggiatori non scandalizza più di tanto, dal momento che quelli erano gli usi e costumi del tempo, con buona pace del futuro Monsignor della Casa e del «politically correct».
Figli di quella elettrizzante stagione sono anche i palazzi di Via Garibaldi, costruiti dai discendenti di quegli antichi mercanti che alla ricchezza avevano unito un titolo nobiliare grazie al quale entravano a buon diritto nei ranghi della aristocrazia. Una aristocrazia che alle attività mercantili aveva ormai sostituito quelle finanziarie, prestando quattrini alle famiglie reali d'Europa, eternamente a caccia di fondi per combattere una qualche guerra ed eternamente in bolletta. E così agli imponenti portoni genovesi battevano gli inviati delle teste coronate di mezza Europa che speravano di vedere dischiudersi davanti a loro i forzieri dopo riposavano ben custodite le ricchezza accumulate dagli ardimentosi mercanti/pirati di qualche secolo prima (non a caso lo scrittore spagnolo Francisco de Quevedo scriveva che l'oro nato onorato nelle Indie, giungeva in Spagna e veniva seppellito a Genova).


All'orgoglio per un tanto brillante passato, però, si sostituiscono ben presto una sorta di rabbia impotente per l'involuzione di una città sprofondata in un lunghissimo letargo e una cocente nostalgia degli spregiudicati mercanti del tempo che fu...

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