Quelle «cure sociali» sono molto peggio del «male» capitalista

di Alberto Mingardi*
«Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». La definizione di Albert Einstein va benissimo anche per «politica industriale» o «programma sociale». Il «sillogismo di Roosevelt» contro cui punta il dito David Mamet, «se qualcosa che porta il nome di programma sociale non funziona, ampliatelo», rappresenta una costante del dibattito politico dei Paesi occidentali. Lo Stato cresce di crisi in crisi, fabbricando nuovi interventi pubblici in risposta alla bancarotta dei precedenti. Il pregiudizio a fronte del quale gli ingegneri sociali producono piani sempre nuovi è quello per cui i mali della società possono essere curati, come le malattie degli individui. Il legislatore è il medico della società. Deve imparare a dosare i propri interventi, ingegnarsi a somministrare la cura più appropriata, ma la sua capacità di agire a modo non è in discussione. Roosevelt contava sul «brain trust», un gruppo d’intellettuali chiamati a ridisegnare l’America. In quegli anni la politica prendeva le misure al suffragio universale. Con l’ampliamento del numero degli elettori, la gestione della cosa pubblica non era più faccenda da gentlemen’s club. Votare era un diritto di tutti, ma per governare erano necessarie competenze, patrimonio di pochi “esperti”. Come scrisse Hayek ne La società libera, è «dagli esperti ed efficienti amministratori, preoccupati esclusivamente di quello che secondo loro è il bene pubblico», che viene «il maggior pericolo per la libertà». Qualsiasi genere di programma statale diventa «un apparato dotato di propria volontà e senza controllo, davanti a cui l’individuo è indifeso: un apparato che è sempre più investito di tutta la mistica dell’autorità sovrana». Mamet riflette su come a questo pregiudizio “tecnocratico” se ne affianchi uno di segno opposto. L’idea rousseauiana per cui «l’uomo è nato libero ma ovunque è in catene»: sono le catene dello sviluppo economico, del progresso, del sistema capitalistico ad avere corrotto l’anima dell’uomo. Alcuni (gli occidentali) sono corrotti al punto da aver tentato di ridurre nella loro stessa situazione altri popoli del mondo. Si tratta di due atteggiamenti apparentemente contrapposti ma, intuisce Mamet, in ultima istanza convergenti. Ai mali sociali creati dal capitalismo deve corrispondere una cura sociale somministrata dallo Stato. Scettici verso i contratti, fideisticamente innamorati delle proibizioni: il mercato crea disordine, solo i pubblici poteri possono fare ordine. Roosevelt sosteneva proprio questo, sottolineando come il liberismo potesse andar bene sì ai tempi della frontiera, ma non per la società fattasi più complessa ed esigente col nuovo secolo. L’uomo è buono prima del passaggio allo stato civile: della corruzione implicata dallo scambio, da un sistema giuridico centrato sui diritti di proprietà, dal capitalismo. Può essere redento solo dal governo, da un “Grande Progetto Sociale” che rimetta le cose al posto loro - che non è quello nel quale sono finite, a causa delle bizze di individui disinformati, incerti, o semplicemente confusi circa il loro Vero Bene. Mamet giustamente cita Hayek per far capire quanto sia più complessa - e meno attraente, meno cinematografica - la visione «liberista» delle cose. La differenza fondamentale è quella che passa fra l’accettazione della realtà, con le sue imperfezioni, e l’ambizione invece di riplasmarla a piacimento. Non è stato Hayek ma un suo discepolo intellettuale, Thomas Sowell, a parlare di «visione tragica», contrapposta alle ambiziose utopie dei pianificatori. Potremmo dire che la visione tragica è caratterizzata dal senso del limite. A essere limitati sono gli uomini. Le decisioni di esseri umani che si trovano all’interno della «classe politica» non sono per questo fatto più sagge o illuminate di quelle prese da coloro che ne stanno fuori. Limitata è la nostra capacità di conoscere e prevedere il futuro. Ogni azione ha conseguenze immediate e desiderate, e conseguenze imprevedibili a chi l’ha compiuta con intenzione. I «programmi sociali» non fanno eccezione. In un vero sistema di mercato, ciascuno è responsabile delle proprie azioni.

In politica, la generosità dei progetti è sempre una buona scusa, per risultati disastrosi. È curioso che sia toccato a un uomo di teatro attaccare con lucidità il fumetto del Potere.
*direttore Istituto Bruno Leoni
twitter.com/amingardi

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