
Gli esperti lo chiamano effetto Dunning-Kruger: è la meta-ignoranza, il meccanismo per cui chi è ignorante tende a non essere consapevole del proprio stato e delle proprie falle cognitive. Le vittime corrono il rischio molto concreto di rimanere paralizzate in un circolo vizioso di inconsapevolezza che cresce sempre più e si traduce in comportamenti (magari elettorali, ma non solo) spesso controproducenti. Pietro Senaldi e Giorgio Merli (il primo giornalista e condirettore di Libero, il secondo consulente e manager, già numero uno italiano di Ibm Consulting Services) scelgono per aprire il loro Sveglia! (Marsilio, pagg. 234, euro 18) una definizione degli italiani usata dal Censis nel 2023: "Un popolo di sonnambuli inerti, ciechi dinanzi a plurimi presagi negativi". Un giudizio severo, per nulla modificato dall'espressione usata l'anno successivo, quella di un popolo di "galleggiatori", in grado di sopravvivere alla giornata ma senza la capacità di progettare una rotta e una destinazione consapevoli.
L'obiettivo di Senaldi e Merli è quello di rompere la gabbia dell'effetto Dunning-Kruger, di raccontare, come recita il sottotitolo, "le bugie che ci impoveriscono, le verità che ci arricchiscono". Il punto di partenza è sconfortante: "Dall'entrata nell'euro, il Pil reale dell'Italia è cresciuto del 9%, contro il 30% di Francia e Germania; in Cina è salito più del 500%, negli Stati Uniti del 150% e in Russia e Iran, due Paesi in guerra, rispettivamente del 200% e del 100%".
Colpa del debito, dell'inefficienza pubblica, degli effetti della globalizzazione, del rapporto con l'Europa. Ma anche di rimozione culturale, apatia collettiva, fiducia nel proverbiale stellone italico, di una politica che si accontenta di effetti placebo, prigioniera di interessi elettorali immediati. Smontare i falsi miti, acquisire consapevolezza delle verità scomode è un primo passo per trovare delle soluzioni. L'adozione dell'euro, per esempio, secondo Senaldi e Merli, non fu null'altro che un modo per mettere in sicurezza un debito pubblico che il Paese non sarebbe stato in grado di garantire senza sfiorare il precipizio del default. Ma messo in sicurezza il debito, restarono tutti gli altri problemi. E in particolare la necessità di reggere l'ondata della globalizzazione. Mercato e concorrenti cambiarono di scala: non più l'Italia o l'Europa ma il mondo intero, che si trovò a giocare la sua partita senza la necessità di importare i nostri standard sociali o un set di regole condivise. Nella Penisola la risposta di una buona fetta della classe dirigente dell'economia, fu quella di puntare la competizione solo sul prezzo. Ma l'incapacità di alzare il valore aggiunto del sistema produttivo si tradusse in una meccanica importazione di povertà. Si poteva fare altrimenti, visti i limiti dell'Italia di allora e di oggi? La discussione è aperta. Di sicuro non bisogna ripetere gli errori di ieri. E per evitare il pericolo meglio fare giustizia delle verità (spesso parziali) che mal interpretate finiscono per diventare, secondo i due autori, veri e propri "dogmi killer".
Alcune si impongono tra tutte: "piccolo è bello", "la produttività si aumenta solo migliorando l'efficienza", "il comparto manifatturiero è il più importante". Tre idée reçues che forse vale la pena mettere in discussione.