QUENTIN SKINNER Propositi di libertà

Il professore inglese ha vinto il Premio Balzan con un lavoro sulla storia e la teoria del pensiero politico

Il premio Balzan è andato a Quentin Skinner, dal 1997 Regius professor di storia moderna all’Università di Cambridge; e sarà conferito a Roma dal Presidente della Repubblica il 24 novembre, presso l’Accademia dei Lincei. Come storico del pensiero politico Skinner ha studiato principalmente il Rinascimento italiano e la «gloriosa rivoluzione» incruenta inglese del tardo Seicento. La prima ricerca prende le mosse da un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, Il buon governo (che ha ispirato anche lo spunto iniziale di Forza Italia). Attraverso le immagini questi affreschi trasmettono una serie di messaggi politici, in particolare nella sezione centrale su La Giustizia, commentata da un’iscrizione: «Questa santa virtù, laddove regge, induce a unità li animi». Skinner si scosta da chi vede in quegli affreschi una ripresa dell’aristotelismo, rispolverato dagli Scolastici: essi derivano dalla cultura preumanistica dell’ultimo medioevo, di stampo latino, non greco; al pari della Costituzione di Siena del 1309, mirante a far sì che «essa città in pace perpetua et pura giustizia si conservi».
Come si spiega, però, che due secoli dopo Machiavelli parli di «virtù» a proposito di Cesare Borgia, che col suo «bellissimo tradimento» si disfò dei signori di Romagna? Si tratta solo di un pervertimento linguistico e morale? Per spiegare il fenomeno Skinner, da storico delle idee si fa filosofo del linguaggio. In ogni discorso egli cerca, non tanto ciò che il parlante vuole dire, ma ciò che vuole fare, lo scopo che si propone di raggiungere; e segue, in questo, un suggerimento di Wittgenstein. Di qui una serie di saggi che il Mulino ha pubblicato, rivisti e corretti, in italiano (Dell’interpretazione, 2001, pp. 223 euro 15,49). L’essenziale del metodo consiste, secondo Skinner, «nel collocare i testi all’interno del loro contesto intellettuale, in modo da chiarire ciò che i loro autori stavano facendo» (pag. 7).
Skinner è decisamente polemico: tutto ciò che dice lo dice opponendosi ad altri autori: non ai classici studiati, ma alla letteratura secondaria che ne ha trattato precedentemente. Il tema principale del suo pensiero, che gli ha valso il premio Balzan, è la libertà. Noi siamo soliti giudicarci liberi (osserva Skinner) nella misura in cui non siamo impediti a perseguire i nostri propositi (libertà negativa); ma nella tradizione classica, ripresa dal Machiavelli, la libertà è minacciata in primo luogo da un potere che può impunemente comportarsi verso di noi in modo arbitrario. Se ci rendessimo conto di ciò, forse ci accorgeremmo che nelle società democratiche moderne siamo molto meno liberi di quanto crediamo. Da storico delle idee Skinner diviene, così, filosofo della politica; e in questo sviluppa una non comune acutezza. Il punto debole del suo metodo, a mio parere, è il limitarsi (a parte il latino e l’italiano del Rinascimento) a letture in inglese. Sul tema della libertà, per esempio, era inevitable ricordare il saggio di Benjamin Constant sulla differenza tra la libertà degli antichi e dei moderni: Skinner lo fa, ma solo indirettamente, attraverso Isahiah Berlin. Croce gli è noto, ma solo perché se ne proclamò seguace il Collingwood. Nelle considerazioni sulla retorica il Vico, professore di retorica, non è mai citato, nonostante la Vico-Renaissance dei Paesi anglosassoni.
Quel che è peggio, è che i saggi Dell’interpretazione si rifanno ad Aristotele - alcuni scritti del quale portarono per la prima volta quel titolo - solo attraverso Quintiliano e Cicerone. In Virtù rinascimentali (Il Mulino, 2006) l’uso che Machiavelli fa della parola «virtù» colpirebbe assai meno se ci si ricordasse del significato di arethé nell’Etica Nicomachea di Aristotele. Che Machiavelli riprenda i romani e non i greci sta bene, ma la stessa cultura preumanistica del tardo medioevo era pervasa di grecità, attraverso traduzioni arabe latinizzate da dotti ebrei.
Agli inizi del Novecento la filologia greca degli inglesi era esemplare, ma ora le difficoltà della lingua inducono gli anglosassoni a trattare come «classici» solo autori anglosassoni, che spesso «scoprono l’America», già scoperta da greci, latini, medievali, tedeschi e così via. Già mezzo secolo fa Ugo Spirito irrideva quei giovani che, andati in America a studiare, ne riportavano come novità cose che molto prima erano state dette da altri.
Ciò non toglie nulla, naturalmente, al valore della riflessione personale di Skinner, in particolare in merito alla retorica, che oggi sta ritornando in auge, dopo il discredito gettato su di essa dal romanticismo. Il retore, infatti, è chi «fa qualcosa» parlando, appunto come vuole Skinner. Gli effetti positivi o nocivi della sua attività, studiati da Nietzsche, Heidegger, Gadamer (questa volta conosciuti anche direttamente), sono al centro della filosofia politica di Skinner e - quasi soltanto per la parte negativa - anche della nostra politica.

Ricordo che nel 1942, dunque in pieno periodo fascista, il mio preside di liceo dichiarava in pubblico: «L’Italia è ammalata di retorica». La ricerca di Skinner, perciò, è attualissima: a patto che non si sganci dal problema antico, sollevato da Platone ed esposto criticamente dalla Retorica di Aristotele.

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