Cultura e Spettacoli

Questa è gente dura ma pronta al perdono

INDIPENDENZA L’ansia di «mettersi in proprio» è il modo più onesto di ricercare la libertà

Questa è gente dura ma pronta al perdono

A Marghera pioveva e il cielo al solito era piombo chimico. Lì, in quel sobborgo di fabbriche, neon, fumi, rabbia, odori acidi, strade e case diserbate, c’era l’altra faccia di Venezia, una sorta di altro non luogo fantastico. La Laguna è di una bellezza irreale, con quelle calli strette in bilico tra l’essere e il non essere. Venezia è un ricordo, una palla di vetro senza neve. È oro. È barocco. È bigiotteria. Marghera è un fantafuturo senza speranza. È la città di Blade Runner. È qui che finiscono i sogni dell’altra parte, di Venezia, e si perdono come lacrime nella pioggia. Bene. Quel giorno, in quel posto, ho capito cos’era il Nord-Est. È gente che si incazza, ma sa capire e, spesso, perdonare.
Era il 1991. Mi ritrovo a fare lo stage, perfino pagato, alla Nuova Venezia. Arrivo una settimana prima di ferragosto. È la Venezia dei colori caldi, del popolo che bivacca, di milioni di turisti anonimi che ti danno un senso massiccio di solitudine. I miei colleghi mi invitano ogni sera a cena per non affogare nell’estate. Quando arriva settembre mi sembra di stare lì da sempre. Non mi è mai più capitato. Forse a New York, dove tutto ciò che vedi è un déjà vu. È autunno e mi chiedono di scrivere un pezzo su una scuola media di Marghera. C’è un problema con due classi, le vogliono unire e i genitori non vogliono. C’è aria di protesta. Il caporedattore dice: «Senti il rappresentante dei genitori». Chiamo. E lui spiega: «È una follia unire due classi di quasi venti studenti. È già una situazione difficile. Molti di questi ragazzi hanno i padri o le madri in carcere o drogati». Trascrivo tutto. Il giorno dopo il centralino del giornale insulta solo me. Quasi quaranta telefonate di rabbia, rancore, indignazione. Come si è permesso questo qui? È lui un drogato. È lui che si fa di acido e lo spaccia e speriamo finisca presto in una cella senza chiave. Sono incazzati neri. Il caporedattore non dice nulla. Alle cinque della sera mi annuncia che devo andare nell’arena. «Senti, c’è una riunione di quei genitori. Ci vai tu». «Io?». «Sì, tu. Così li guardi in faccia». Mi butta fuori con un consiglio: attento agli sputi.
Il rischio c’è. Quelli lì sono tanti e impiccherebbero qualsiasi giornalista, figuratevi quello giusto, il colpevole. La riunione non è ancora cominciata e una mamma scannerizza tutta la sala e dice: «Se c’è qui quel giornalista che mi ha chiamato drogata si faccia vedere». E giù una litania di parole che non è bene mettere su carta. L’istinto è scappare. Quello che mi hanno insegnato mi fa rimanere. Alzo la mano e dico: sono io. A quel punto quell’ampio salone è carico di tori infuriato. Finirò su un albero. Linciato. Ma poi uno di loro si calma: lasciatelo parlare. È un processo e io chiedo la clemenza della corte. Ho 23 anni e mi dichiaro colpevole. Mi appello alle attenuanti. Ho scritto quello che mi hanno detto. È vero non ho controllato le fedine penali di tutti i genitori. Sono lì da meno di un mese. Non sono neppure un vero giornalista. E Marghera per me è solo una frase in una canzone cantata da Guccini: il fumo e la rabbia di Porto Marghera. Sono pronto al peggio, la mia avventura di cronista finisce lì. Addio stage. Addio Venezia. E invece tutto cambia. I tori non fumano più. La mamma che voleva impiccarmi sembra Mary Poppins. Mi invita a cena a casa sua (deve essere una abitudine del posto, e se non bevi si offendono e io sono astemio, o quasi). Tutti quanti dicono che ho avuto coraggio. Ho alzato la mano. Pacche sulla spalla e si resta a chiacchierare fumando nella nebbia. Il giorno dopo chiamano in redazione, le stesse telefonate della mattina prima. La frase ricorrente è questa: non lo licenziate è un bravo ragazzo. È da quel giorno che amo Marghera, Venezia, la grappa, lo sgropin e l’odore della Laguna. Il motivo è solo uno: mi hanno dato una lezione.
Il Nord-Est in qualche modo mi perseguita. Molti degli scrittori che frequento di più vengono da lì. Pordenone mi ha adottato e non ho mai visto tanta gente calamitarsi in ogni angolo di piazza ad ascoltare qualcuno che parla di romanzi. Mi piace Percoto, dove i Nonino con la scusa della grappa assaporano il gusto di stare a tavola con una banda di premi Nobel passati e futuri. Quando a gennaio lì c’è il premio c’è questo paese che santifica i vitigni e la letteratura, tutti seduti su tavolacci contadini. Queste terre finora non mi hanno mai deluso. È questa aria di postmoderno che ha radici povere e antiche. È che davvero sanno sognare, con quell’ansia di mettersi in proprio, che è il modo più onesto di cercare la libertà. Qui Werner Sombart avrebbe potuto dare carne e dialetto al suo imprenditore, quello che parte da poco e va avanti con l’ansia di conquistarsi fette di futuro, ossessionato da una sorta di spirito faustiano, che ha qualcosa di religioso e di immortale. Fare vuol dire lasciare una traccia. È quella consolazione che ti fa dire anche davanti al nulla: ho vissuto. Qui ho conosciuto gente che si interroga su cose inutili e pensa che senza schei la cultura è un lusso. Ma quello che loro cercano è proprio la cultura. Mi sono chiesto camminando per Treviso se questo è il mondo che stava cercando Ayn Rand mentre scriveva La rivolta di Atlante. E poi questi qui sono della stessa razza di Buzzati o di Meneghello, sognatori con i piedi per terra, fabbri con un talento e una creatività che appare dimessa, ma solo perché non ha bisogno di fuochi d’artificio per farsi riconoscere.
È questo il segreto del Nord Est. È non riuscire davvero a dire: libera nos a Malo.

E Malo è quella stessa Itaca che molti di noi non riescono a dimenticare.

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