La buona prestazione in una partita di calcio diventa l’occasione per inviare un messaggio carico di tristezza e d’accusa. Il portiere della squadra di calcio del Brescia, Matteo Sereni, invece di intrattenersi con le solite frasi fatte insieme all’intervistatore che, davanti alle telecamere, elogiava la sua prestazione, approfitta dell’opportunità di avere davanti a sé la televisione per parlare ai suoi figli. Sereni spera che Simone e Giorgia abbiano visto la bella partita e apprezzato il loro papà, perché a lui, da tanto tempo, è preclusa la possibilità di incontrare i suoi figli, Perché? La risposta la conoscono bene tanti papà separati che, per le ragioni più diverse, non riescono più a vedere i propri figli. Le ragioni sono, appunto, diverse, ma sono riconducibili tutte a un unico motivo: la madre, nelle cause di separazione e di divorzio, è la figura tutelata a tutto danno del padre. Mettiamo da parte l’aspetto economico che pure, ovviamente, ha il suo peso: conosco amici costretti a vivere in un residence o in una camera in affitto perché, separati, rimangono loro ben pochi quattrini per vivere, dovendo dare una parte rilevante dello stipendio alla moglie e lasciarle la casa. Ma oltre a questa pena, ne patiscono una ben peggiore, quella di non riuscire a stare coi propri figli se la moglie s’impunta e trova mille cavilli legali per portare a compimento la sua vendetta. Perché di vendetta si tratta: l’uso dei figli come proiettili di fucile da sparare contro il marito. Non sono casi estremi, questi. Nascono da un pregiudizio: il padre non ha parità di diritti rispetto alla madre. La madre è la vera educatrice, il padre è una figura subalterna. Questo pregiudizio diventa una regola normativa quando il giudice si trova ad assegnare, a uno dei genitori, in seguito alla loro separazione, la custodia dei figli. In oltre il 95 per cento dei casi, il giudice li assegna alla madre. Se i genitori vanno d’accordo, il padre riesce a vedere i propri figli due volte al mese, nei giorni di festa e durante le vacanze, alternandole con la madre. Se invece avvocati e giudici non riescono ad appianare i conflitti coniugali, sul fronte di guerra la madre manda i figli, e lei si approvvigiona delle armi più diverse per negare all’ex marito la presenza dei figli. Comunque, in un caso come nell’altro, vale sempre lo stesso principio: il padre non è rilevante come la madre nell’educazione dei figli. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: abbiamo una società mammocentrica, e i figli crescono totalmente mammizzati. Ma il dramma non si restringe alla condizione dei separati: nelle famiglie normali, il padre non esiste come figura di responsabilità, di ordine, di autorevolezza. I padri sono stati rottamati. Anche per colpa loro, ma innanzitutto delle madri. La donna oggi non è più la casalinga di un tempo: lavora, spesso ha ruoli di responsabilità pubblica e finisce per portare la sua autorità in famiglia, sottraendola ( anche in buona fede) al padre che, talvolta, trova vilmente nella condizione di potere della donna l’alibi per infischiarsene dell’educazione dei figli, oppure si rassegna a vivere la frustrazione della sua emarginazione. Non avendo più il ruolo e l’identità che una volta gli venivano riconosciuti per tradizione, l’educazione dei figli viene surrogata dalla mare. Così questi ragazzi crescono insicuri, fragili, imbozzolati nell’interiorità protettiva «della madre, privi di quel senso di realtà, del coraggio, del dovere di cui il padre è il vero artefice educativo. La società conferma e rafforza la vita familiare: i giudici sono tutti dalla parte della donna; negli affidi condivisi è sempre lei a prevalere; nelle separazioni problematiche la sottrazione - vero sequestro - dei figli da parte della madre non è ufficialmente, legalmente, ammessa, però nella realtà è praticata e tollerata. Ma perfino dal punto di vista linguistico il mammocentrismo è dominante. Si è riusciti a battezzare l’asilo con il nome di scuola materna! Ho dovuto, a suo tempo, supplicare il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti perché cambiasse il nome in scuola dell’infanzia. E tuttavia, come credete che venga chiamato ancora oggi l’asilo? Ovvio: scuola materna. Sembrano dettagli.
Ma si pensi al dolore di Matteo Sereni, portiere della squadra di calcio del Brescia: deve approfittare di una buona partita per lanciare un appello, per chiedere la cosa più umana e naturale: vedere i suoi figli. E il vero dramma di Sereni non è soltanto provocato dall’ostilità della moglie: è la cultura di un’intera società che è contro di lui.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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