Sorprendente Régis Debray. Si sono appena spenti gli echi suscitati un anno fa da Fare a meno dei vecchi. Una proposta indecente (Marsilio). Ossia lopuscolo in cui lex-ammiratore del Che, di fronte alla temibile minaccia costituita dalla geriatria ai vertici delle istituzioni come della famiglia umana, auspica la creazione di comunità rurali gestite dallo Stato - le cosiddette bioland - dove gli anziani «tra conversazioni e meditazioni vespertine» scompaiano dagli occhi dei giovani che bramano di occuparne il posto ai vertici della piramide sociale, ed ecco lincontenibile maître-à-penser che oggi si proclama «lultimo gollista della sinistra europea» licenziare alle stampe ben due scritti di notevole spessore che non cè dubbio faranno arricciare il naso a molti. Dove il comun denominatore che accomuna il primo - un brillante éssai nostalgicamente intitolato Sur le pont dAvignon (Flammarion, pagg. 122, euro 10) - al secondo - un opus magnum dialogato che sotto il nome Julien le Fidèle (Gallimard, pagg. 144, euro 13,90) si vuole a ogni costo annettere il primato di rivoluzionare la scena del mondo - è lo strumento di comunicazione più antico che esista, e cioè il teatro.
Dopo aver magistralmente evocato le circostanze in cui fu fondato, nel 47, il Festival pensato e voluto da Jean Vilar dove la pretesa di educare il popolo alla comprensione dei classici del pensiero non andava esente, nelle messinscene del grande regista, dalla lettura in controluce dei fatti politici (Lorenzaccio ci parlava di Stalin come Assassinio nella cattedrale del totalitarismo), Debray spezza una lancia contro il mito monumentale ma fragile del «napoleonico Malraux». Il quale, sdoganando la cultura dal predominio scolare, nel 59 abolì con un tratto di penna il diritto dellinfanzia a fruire dei beni del pensiero. Confinando leducazione nazionale alle Maison de la Culture, le grand André avrebbe a suo dire allontanato per sempre la Francia dal contesto europeo facendone una triste colonia americana dove linsegnamento universitario e lélite rappresentativa della nazione poco o nulla hanno a che vedere con gli uomini che vivono al di là delle Alpi.
Fin qui con la polemica storica, che a Debray serve per innescare lautentico discorso che gli sta a cuore. Che consiste, per citare esattamente le sue parole, in un nuovo concetto di comunicazione («il trasporto miracoloso dellinformazione nello spazio») da opporre a quella pura e semplice transmission de linformation da lui definita abbietta alla stregua della nuova degenerazione invalsa nellarte visiva. Coi volti di Gina Pane devastati da unorda di scarafaggi e le carni squarciate e ricucite di Orlan.
Nemico dichiarato dellaudiovisivo da quando, promosso alla diffusione planetaria del messaggio, ha degradato il simbolo che lartista elevava a mezzo di decifrazione del reale a sintomo della nostra inevitabile alienazione, Debray scorge nellabitudine, invalsa nel teatro doggi, di designare un capolavoro non col nome dellautore ma con quello del regista che ne ha curato lultima impaginazione («si parla del Finale di partita di Gildas Bourdet e non della Fin de partie di Samuel Beckett», commenta con amarezza) il segno inequivocabile della nostra decadenza. È a questo punto che, alle soglie di quella che fino a ieri era definita come senescenza (Debray ha sessantasei anni), il filosofo decide di passare alla riscossa promuovendosi neodrammaturgo in pectore.
Persuaso che per essere moderni è necessario rifarsi allantichità classica, limprevedibile Debray licenzia dunque la sua prima opera teatrale: un Julien le Fidéle che descrive in accenti commossi e a tratti autenticamente ispirati la parabola di Giuliano lApostata, limperatore vissuto tra il 331 e il 363 dellera cristiana. Naturalmente «lultimo gollista» non solo si sforza di far coincidere col proprio io il laicismo di Giuliano, educato al culto cattolico prima di cedere allinsidioso fascino di Atene («il solo luogo al mondo dove lideale e il reale possono vivere uno accanto allaltro indivisi»), ma si specchia nel suo eroe fino a identificarsi col moto che dirige il mondo prima di deplorare il martirio di Ipazia, la pensatrice neoplatonica di Alessandria uccisa nel V secolo da unorda di cristiani fanatici. Ma ciò che più gli sta a cuore è ben altro. Ossia dimostrare a posteriori la luminosa fondatezza del cosmo sacrale dei padri, dominato dallalta magia iniziatica degli auguri: una «matematica delle nuvole» altrimenti detta meteorologia. La sola dottrina che un conservatore rivoluzionario può opporre alla presunta santità di un battesimo che sfugge al controllo degli astri come alla luce folgorante degli iniziati ai Misteri.
Per attraversare in diagonale la scacchiera del suo tempo, Régis-Julien rimprovera ai cristiani di ieri come ai cattolici di oggi «la disobbedienza civile e il sovvertimento politico» delle istituzioni che hanno fondato un tempo la grandezza di Roma e, fino agli albori del XX secolo, il mito di Parigi.
Esaltato dallesempio dei paladini del sogno, fautori dellimpossibile dediti al culto dellinutile che, dai Giacobini ai Socialisti dal volto umano, hanno scambiato la fine di un ciclo per un nuovo pronunciamento, lautore persuaso che la tragedia contemporanea consiste nellindubitabile dato di fatto che oggi i santi e i perversi possono scambiarsi reciprocamente di ruolo, lascia alla fine che il suo semidio venga assorbito - nellaldilà - dalle Madri. Che non sono più le progenitrici di Faust nel poema di Goethe ma semplicemente le ombre che vorrebbero prepararlo a un nuovo concepimento. Che Debray, sulle orme di Camus, non può che rifiutare scomparendo nel nulla.
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