Sono trascorsi pressappoco 15 anni da quando i cultori del jazz si accorsero quasi all'improvviso che i personaggi migliori della loro musica preferita erano usciti di scena senza che si profilasse qualcuno in grado di sostituirli. Diventò questa, in breve, la preoccupazione più viva, riportata dalle riviste specializzate e discussa a livello internazionale. Louis Armstrong, Duke Ellington, Billie Holiday, Art Tatum, Lester Young, Charlie Parker, John Coltrane, Thelonious Monk, Charles Mingus, Stan Getz, per citare nomi quasi a caso, erano morti. Si cominciò dunque a parlare della necessità dell'avvento di un «nuovo genio» che fosse «in grado di porsi come forza trainante con la sua capacità di segnare una svolta nell'itinerario del jazz, come quelli lo furono».
Si trattava, a ben guardare, di una visione di tipo tradizionale, legata ai tempi d'oro in cui i jazzmen, fra gli anni Venti e gli anni Settanta del 900, emergevano uno dopo l'altro: si veda, a questo proposito, quella sorta di autobiografia di Pannonica de Koenigswarter pubblicata in Francia, Les Musiciens de Jazz et Leurs Trois Voeux, dove la «baronessa del jazz» definisce indirettamente la loro genialità favolosa. Ma allora era addirittura sufficiente che qualcuno inventasse una nuova sonorità sul proprio strumento (fu il caso di Stan Getz) perché il jazz virasse di prua. Al pubblico ciò bastava. Per questo motivo molti ritennero per qualche tempo che il «nuovo genio» fosse Wynton Marsalis, che «ha una tecnica superlativa che gli permette di fare della tromba quello che vuole, ha una bella sonorità ed è anche un bravo insegnante». Ma poi la maggioranza dei molti si accorse che Marsalis era un passatista.
I più avveduti, allora, volsero la propria attenzione altrove, e la focalizzarono su un giovane sassofonista tenore e compositore di Oakland, California, classe 1955: è David Murray, in arrivo lunedì al Teatro Manzoni per Aperitivo in Concerto (ore 21) con uno spettacolo di musica-teatro - meglio: opera-musical - di eccezionale interesse. Murray ha fatto studi severi con maestri illustri, è uno dei massimi sassofonisti e improvvisatori contemporanei, e in particolare «la sua opera si è resa sempre più composita nell'esplorare l'intersezione di jazz, gospel, sonorità africane e caraibiche. La sua musica ha combinato le innovazioni del free jazz degli anni Settanta con il jazz di New Orleans per ottenere un suono estremo ed aspro». Non c'è sentiero musicale che Murray non abbia battuto nel tentativo incessante di innovare. Nel 76 ha partecipato alla fondazione del World Saxophone Quartet con il quale collabora tuttora, e poi ha riunito complessi propri e ha suonato con altri leader, sempre nei paraggi dell'avanguardia. Last not least, è persona di vasta cultura. Basti dire, per fare un esempio, che il critico musicale, musicista e poeta Stanley Crouch scrisse per lui The Saxophone Man, 1974, allo scopo - non conseguito - di evitare che si trasferisse a New York «per fare soltanto il musicista».
Adesso Murray presenta per Aperitivo in Concerto, in esclusiva italiana, lo spettacolo che è l'esito definitivo della sua straordinaria ricerca sulle ascendenze africane dello scrittore russo Alexander Pushkin (1799-1837), caro a numerosi intellettuali afro-americani tra i quali Langston Hughes, Richard Wright e Paul Robeson. L'opera-musical è stato proposta a Parigi nel 2005 in forma ancora incompiuta, per cui «Pushkin, the Blackamoor of Peter the Great» in programma al Manzoni è in realtà una prima assoluta.
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