Negli ultimi anni la radio è stata spesso considerata l'anello debole della promozione pop. Intanto - si diceva - i ragazzi (meglio: i ragazzini) non la ascoltano più, a loro basta Spotify, del resto se ne fregano. Grazie (anche) a questo ragionamento, negli ultimi tre o quattro anni abbiamo ascoltato una montagna di canzoni famose, di artisti famosi, di testi famosi e di look famosi. Ma solo per pochi mesi. Autentici prodotti di consumo che avevano, e tuttora hanno, una data di scadenza come lo yogurt. Brani e cantanti che passano e vanno senza che gli ascoltatori abbiano una minima consapevolezza di chi siano e di che cosa raccontino. L'ascolto digitale, chiamiamolo liquido, è appunto un ascolto. Ma nient'altro. La promozione, ossia il «raccontarsi» al pubblico non è soltanto un modo per fare streaming o vendere copie. È un modo per creare o consolidare carriere. Per accendere o rinfocolare un rapporto tra chi canta e chi ascolta. Per fare conoscere chi altrimenti resterebbe sconosciuto. Per spiegare, infine, le storie dietro le canzoni. Insomma si tratta di un percorso che non è semplicemente commerciale (ossia visibilità uguale vendita) ma anche esistenziale. Senza il filo diretto con gli ascoltatori, non si creano popstar. Senza le storie, non si fa la storia degli artisti che passano alla storia. È stato un aspetto molto sottovalutato negli ultimi anni. Con le conseguenze che conosciamo. Brani anonimi. Cantanti volatili. Zero impegno. Zero fedeltà degli ascoltatori. Per fortuna la tendenza si sta invertendo. E la radio è lo strumento principale per riaccendere questo filo diretto che i social hanno spesso sterilizzato.
Lo ha capito Laura Pausini (sempre pioniera della sensibilità, nella foto) e lo stanno capendo tanti altri. Raccontarsi in radio magari non fa vendere più dischi ma fa molto di più: toglie i filtri ai nostri idoli e quindi ce li restituisce autentici, ossia popolari, ossia di nuovo destinati a restare.
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