Milano - Quel sorriso non lo ha visto quasi nessuno. È caduto così, impercettibile, in un giorno qualunque a Perugia, nell’aula di un tribunale. Gli unici testimoni sono gli avvocati, loro dicono che esiste, c’è, un «sorriso affettuoso, dolce, e tipico dei vent’anni». Amanda è un po’ più donna, i capelli lunghi, di un castano autunnale, che scendono sul pullover azzurro e sfiorano la camicetta bianca, che dovrebbe evocare un’idea di innocenza, ma su di lei resta un azzardo. È dimagrita, senza sciuparsi. Il carcere ha solo cancellato sul volto i segni di quei giorni deragliati, di stravizi e di oblio, quando quella ragazzotta americana non ricordava dove aveva passato la notte, se aveva fatto l’amore o solo fumato, bevuto, dimenticato. Chi c’era e chi non c’era. Non ricordava e mentiva. La notte in cui fu uccisa Meredith resta, nelle parole di Amanda, nei suoi racconti agli inquirenti, ancora un buco nero, una questione irrisolta, un giorno buio con troppe bugie, troppi non so e poche verità. È passato quasi un anno e Amanda ieri ha sorriso, con il collo nudo offerto alla giustizia. E per un attimo ha guardato Raffaele.
Raffaele Sollecito è un po’ più vecchio. Non ha più nulla del quasi ingegnere pronto a discutere la tesi in «programmazione genetica», con lo sguardo da bravo studente del Sud, buona famiglia, avvenire tranquillo e una strana passione per le armi da taglio. Il ragazzo che scriveva: «Sono dolce, ma a volte pazzo». Il carcere ti cambia i lineamenti. Gli occhiali cadono su un naso più sottile, la bocca e il mento hanno perso sicurezza e quei capelli lunghi lasciano il segno. Raffaele è diverso, si è lasciato andare, non ha la «fortuna» di Amanda, che quando il buio arriva, si rifugia in un mondo tutto suo. Quel sorriso sfumato è tutto ciò che resta di un’altra vita, il ricordo di due amanti. Amanda sorride e Raffaele risponde. Tutto qui, in mezzo ci sono tre file di banchi, i volti degli avvocati e le spalle della polizia penitenziaria. Ma in mezzo c’è soprattutto la verità: chi ha ucciso Meredith? E perché? Chi c’era quella notte in quella stanza? In fondo sono qui per questo. A giocarsi la vita a pari e dispari: innocenti o colpevoli. Amanda, Raffaele e il terzo uomo, Rudy Guede, l’unico che ha ammesso: «Io ero lì». Il giovane ivoriano che dice: «Ho visto ma non ho ammazzato». L’uomo che c’era, ma annaspa nella vaghezza: «C’era qualcuno sul corpo di Meredith. Aveva un coltello in mano. Sì, un italiano, con gli zigomi forti. No, il nome non lo so». Lui, che sembra puntare l’indice verso Sollecito, ma poi lo devia, indicando la luna.
È la prima volta che tutti e tre si trovano davanti al giudice. Il quarto attore è il testimone. Arriva. Felpa blu chiusa fino al mento e berretto azzurro calato sul volto. Non si vede altro di Hekuran Kokomani. È albanese, ha 38 anni ed è l’uomo dell’accusa. La sua parte in scena non è irrilevante. Se dice la verità per i tre si mette male. Un mese dopo il delitto Kokomani si presentò in procura e disse: «Ho visto i tre ragazzi che ora sono in carcere. Era la sera del primo novembre, in via della Pergola. Sotto casa, praticamente. Amanda aveva un coltello in mano. Pioveva». Qualcuno può domandarsi se in questa storia il tempo, pioggia o sereno, sia un aspetto importante. A quanto pare lo è. Il problema è che la notte tra i Santi e i Morti, insomma quella tra il primo e il due novembre del 2007, non pioveva.
Le difese dicono, chiaramente: «Vedete, mente. La sua testimonianza è completamente inaffidabile». E cosa ha detto l’albanese in aula? Ha confermato tutto. Tranne una cosa. Il suo avvocato, Aiello, dice: «Il mio assistito non è stato in grado di dire con certezza quando è avvenuto questo incontro fortuito con i tre indagati». Ha visto Amanda con il coltello, ma non sa quando.
Strano caso. È un delitto da camera chiusa, con qualche spiffero. Si conosce la cornice, sfuggono i particolari. E c’è un personaggio che manca. Meredith è il personaggio debole di questa storia. È la vittima che uno scrittore distratto ha dimenticato di raccontare.
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