Accade alla fine dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij: a un certo punto si esaurisce il racconto - in bianco e nero - della vita del monaco e pittore medievale russo e le sue opere d’arte - filmate a colori - ne prendono il posto. Una contiguità spiazzante, eppure vera, tra due fotogrammi, tra due dimensioni dell’esistenza.
Ritroviamo tutto ciò in La Stanza della Segnatura di Giovanni Reale (alla penna) e Elisabetta Sgarbi (alla cinepresa). In questi tre saggi più film (Bompiani, pagg. 300, 350, 300 e Dvd, euro 50) gli affreschi di Raffaello nello studio-biblioteca di papa Giulio II vengono commentati dal filosofo e illuminati dalla regista: dove si arresta l’esegesi, inizia l’immagine. «Forse solo la macchina da presa - ci dice Giovanni Reale - poteva metterci davvero in colloquio con i filosofi di Raffaello, animandoli davanti ai nostri occhi».
Qualcuno potrebbe dire, però, che è la solita triangolazione postmoderna tra scrittura, arte e cinema...
«Tutt’altro. Piuttosto: follia divina, o divino furore, nella traduzione di Ficino. Così Platone definiva l’arte, ed è la stessa risposta che ci diamo io e Elisabetta Sgarbi quando ci interroghiamo su ciò che stiamo facendo con questi saggi accompagnati da un film. Sa come è iniziato tutto?».
Come?
«Sapendomi appassionato di Grünewald, Elisabetta mi chiese se potevo scrivere un saggio su questo pittore che interessava molto anche lei, per averlo visto da giovanissima, accompagnata dal fratello Vittorio. Le risposi: “sì, io faccio il libro, ma lei fa il film”. Così nacque questa collaborazione proseguita nel tempo: a volte io parto dai suoi film per un saggio, a volte lei dai miei scritti per un film. A Natale, pubblicheremo una riflessione sulla via crucis in legno di Beniamino Simoni, a Cerveno».
Tornando alla Stanza della Segnatura, come si è sviluppato il progetto?
«Le cineprese non vi entravano da 40 anni. Io stesso l’ho vista con tranquillità solo una volta. Di solito si viene trascinati via dai turisti. L’intellighenzia vaticana del tempo aveva dato a Raffaello istruzioni filosoficamente all’avanguardia: il Parnaso, la Scuola di Atene e la Disputa sono le tre vie attraverso cui l’uomo procede verso la verità. Traduciamole: l’arte con la bellezza, la filosofia con la ragione e la religione con la fede. Platone le teorizzò, il Rinascimento le ripropose, Hegel le ereditò in modo esemplare».
Partiamo dalla Scuola di Atene.
«Raffaello vi riassunse quel mondo che i suoi mentori, tra cui Fedro Inghirami, gli avevano spiegato alla perfezione. Il gesto di Aristotele è stato sovente male interpretato: la sua mano si muove dal basso all’alto, come per integrare l’aspirazione alla trascendenza di Platone, che punta il cielo con un dito, ma non certo per contraddirla. Osservando come Raffaello ha rappresentato tutti i filosofi, dagli orfici a Plotino, penso con Nietzsche che un uomo come lui non ci sarà mai più. È un vulcano».
E il Parnaso, invece?
«Nel film di Elisabetta Sgarbi è presentato attraverso giochi ermeneutici, e questo mi trova d’accordo: sono tra coloro che pensano che in ogni grande opera d’arte c’è un’idea. È l’affresco meno noto, poiché è “tagliato” dalla presenza di una porta, ma è anche un incanto: l’incanto delle muse. D’altronde, l’arte è una forma di pensiero filosofico che pensa per immagini».
E infine la Disputa.
«Il più raffinato e difficile. È strutturato su tre piani: la realtà terrena, la celeste e la sopraceleste, cioè Dio. In basso vi sono i teologi, che cercano di spiegare Dio con la ragione. Al centro, un angelo che risponde loro, immagino con le parole di Dante: “State contenti, umana gente...”. Davanti alla Disputa riesco a spiegarmi la morte prematura di Raffaello: se dici tutto e in modo così forte, non puoi vivere oltre. Eppure, in nessuna delle sue pitture vedo il dramma della morte, se non mascherato. Raffaello, in questo, è l’esatta antitesi di Grünewald».
Forse anche l’antitesi dell’arte contemporanea...
«Le opere contemporanee, tranne alcune eccezioni, sono delle beffe. Dietro c’è solo nichilismo. Il che è legittimo, ma non puoi ripeterlo all’inverosimile. Finisci nella provocazione avulsa dal pensiero. Ricordo un artista francese che aveva fatto una “Sintesi della macchina” comprimendo un’automobile in un cubo. Una beffa, appunto. L’arte è pensare la verità per immagini e presentarla in una giusta proporzione. Oggi siamo caduti nella sproporzione. E se guardo i volti di Raffaello vicino a quelli di Picasso, mi sento male per questi ultimi».
Benjamin con Klee, Foucault con Velázquez, Baudrillard con Warhol: sembra impossibile filosofare senza un quadro... Ma prima del ’900 non era così. Perché?
«C’entra la rivoluzione scientifica, che propagò il pensare solo per concetti. Ma noi pensiamo, dice De Chirico, molto meglio per immagini.
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