Patrick Leigh Fermor, Paddy per gli amici, si rivelò come scrittore lo stesso anno, il 1950, che l’Inghilterra lo acclamò come eroe. Da un precedente viaggio nei Caraibi, aveva ricavato il materiale sufficiente per il suo primo libro, The Traveller’s Tree, uscito allora con buon successo di pubblico e di critica. Dalla Seconda guerra mondiale, il suo amico Bill Stanley Moss aveva invece ricavato un volume di memorie; Ill Met by the Moonlight (Colpo di mano a Creta), in cui si rievocavano le imprese belliche degli ufficiali inglesi paracadutati a Creta per fomentare la resistenza contro i tedeschi padroni dell’isola.
Una di queste, il rapimento del generale della Wehrmacht Kreipe, nell’aprile del 1944, aveva visto Paddy a capo dell’operazione e Bill come suo vice, e in essa c’erano un po’ tutti gli elementi che rendono la guerra cavalleresca e per un istante ne fanno dimenticare l’orrore. Paesaggi splendidi e selvaggi, giovani ufficiali travestiti da pastori che per comunicare con la gente del luogo usavano il greco antico studiato nelle public school e nei college, partigiani greci dall’indomita fierezza e dall’abbigliamento pittoresco, comandanti tedeschi che citavano Orazio in originale e si vedevano la citazione completata dal nemico britannico che li aveva fatto prigionieri... È quello che accadde fra Kreipe e Fermor uniti dalla oraziana ode Ad Thaliarcum: «Vides ut alta stet nive candidum/ Soracte. Nec iam sustineant onus/ Silvae laborantes, geluque/ Flumina constiterint acuto». («Laggiù si staglia il Soratte, vedi?, con candido manto di neve/ Stremati, faticano i rami a reggere il peso./ Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi»). Ricorderà anni dopo Fermor: «Fu come se per un lungo momento la guerra non esistesse più. Tanto tempo prima entrambi ci eravamo abbeverati alla stessa fonte e per il tempo che restammo insieme fra noi fu tutto diverso».
Ill Met by Moonlight divenne un film, con Dirk Bogarde nel ruolo di Paddy e questo insieme di cose, l’impresa in sé, le decorazioni, la bellezza fisica di chi sullo schermo lo impersonava, ma che rispecchiava quella del vero protagonista, la giovinezza stessa di Fermor, allora trentacinquenne, l’esotismo di un’esistenza che lo aveva visto fino ad allora vivere più fra le isole greche e Costantinopoli che nella madrepatria, ne fecero una sorta di figura rinascimentale, uomo d’azione e uomo di pensiero, romantica appendice di quell’eccentricità che gli anglosassoni amano e insieme tengono a distanza, accettabile solo se posta al di fuori di un sistema di classi che garantisce le eccezioni a patto che in loco non mettano in discussione le regole...
Oggi Fermor ha più di novantaquattro anni, continua a vivere fra l’estremo sud della Grecia, il Mani, e il Gloucestershire, è considerato il più grande degli scrittori di viaggio viventi, e bene ha fatto Adelphi a tradurre ora quel Tempo di regali (pagg. 348, euro 20, traduzione di Giovanni Luciani) da lui scritto trent’anni fa, resoconto brillante e fedele di come nacque una vocazione e trovò un senso quella che, fin dall’adolescenza era un’inadattabilità esistenziale. Chi ha trovato nei libri di Bruce Chatwin una sorta di prototipo di un modo di viaggiare e di vivere, si accorgerà di come sia stato modellato seguendo in qualche modo proprio le orme di Fermor, un felice impasto di curiosità e di freschezza, spreco di tempo e concentrazione, puro dilettantismo e ferrea determinazione.
Tempo di regali prende il suo titolo da una poesia di Louis MacNeice. Quando quel tempo è appunto passato, «i ragazzi crescono, le nevi si sciolgono», la «dodicesima notte» è stata ormai raggiunta e ciò che è stato è stato. È il racconto del giovane Paddy, «un miscuglio pericoloso di malizia e assenza di remore che preoccupa per il suo influsso sugli altri ragazzi», come annota il direttore del convitto durante il suo terzo anno di scuola. Figlio di una coppia separata, lui funzionario coloniale, direttore del Geological Survey of India, lei una giovane donna che si diverte a prendere lezioni di volo a pagamento pur non avendo di che pagare l’affitto, è un ragazzino selvaggio che le istituzioni non riescono a governare. Nel dicembre del 1933, appena diciottenne, una carriera scolastica sciagurata e ribalda culminata in un’espulsione perché sorpreso mano nella mano con la figlia ventiquattrenne di un fruttivendolo, Fermor decide di partire.
Sul passaporto gli piacerebbe fosse scritto «vagabondo», ma fortunatamente c’è chi decide per lui e mantiene la qualifica, un po’ usurpata, di «studente». Ha uno zaino d’alpinista, un vecchio cappotto militare, scarponi chiodati, taccuini e album da disegno l’Oxford Book of English Verse, il primo volume delle Opere di Orazio nella collezione Loeb come bagaglio intellettuale. È stato tentato di abbracciare la carriera militare, ma siamo ancora in tempo di pace e lui della guerra ha un’idea da «grande gioco» kiplinghiano che al momento non è contemplata, si immagina scrittore, ma non ha mai scritto una riga. «Mi sarei spostato a piedi, avrei dormito coperto da mucchi di fieno d’estate, cercando rifugio nei granai quando pioveva o nevicava, e avrei frequentato solo gente di campagna e vagabondi. Una nuova vita! Libertà! Qualcosa di cui scrivere».
Già, ma dove andare? «Ancora prima che guardassi una mappa, due grandi fiumi avevano già tracciato l’itinerario nella mia immaginazione: il Reno vi si snodava per un lungo tratto, poi si ergevano le Alpi, lo spartiacque dei Carpazi infestato dai lupi, e la cordigliera dei Balcani; e lì, alla fine del tortuoso cammino del Danubio, si allargava il Mar Nero, misterioso e sbilenco. Quanto alla meta finale, non è mai stata in dubbio, nemmeno per un attimo. Il profilo levitante di Costantinopoli forava con i suoi sottili cilindri e le semisfere la bruma salita dal mare: al di là si librava il monte Athos, e l’arcipelago greco già spargeva le sue isole nell’Egeo come i bigliettini di una caccia al tesoro».
Nella Bisanzio «verde drago, ossessionata dal serpente e tormentata dal gong», Fermor arriverà un anno dopo, l’1 gennaio del 1935, e poi da lì ripiegherà sul Monte Athos, la Macedonia, Atene, dove si innamorerà di una pittrice romena, Belasha Cantecuzéne, della omonima dinastia imperiale, con cui andrà prima a vivere in un mulino sull’isola di Poros, poi in Moldavia nella casa di famiglia di lei. Solo lo scoppio della guerra lo riporterà in Inghilterra...
Quel viaggio adolescenziale, dunque, gli cambia completamente la vita e fa di un ragazzo inadatto e strafottente, impertinente quanto gentile, ignorante, ma a suo modo colto e desideroso di imparare, un’altra persona. Gli indica una via, gli apre una prospettiva. È un viaggio in un’Europa che si sta precipitando verso la catastrofe, Hitler è appena arrivato al potere, l’Austria è in fermento, l’Est Europa conosce regimi militari, tensioni nazionalistiche, colpi di mano comunisti, ma Paddy di politica non sa nulla e la sua verginità in questo campo lo preserva. È un’Europa dove ancora esiste un’aristocrazia, appunto, europea, il cosmopolitismo di chi frequenta gli stessi luoghi, conosce le stesse lingue, legge gli stessi libri, pratica gli stessi hobbies, e dove il popolo ha una sua identità, i mestieri artigiani, il lavoro dei campi, e una sua naturale dignità. Fra sbornie, architetture barocche, notti nei fienili, passaggi su chiatte, splendori di paesaggi e di castelli, incontri bizzarri e incontri colti, dormendo in ostelli fetidi e in dimore sontuose, Fermor lo attraversa pieno di curiosità e aperto a ogni novità. Chi lo ospita ne rimane colpito e le lettere di presentazione che a volte lo accompagnano da un luogo all’altro testimoniano che in quel ragazzo c’è della stoffa, un’amabilità, una gioia di vivere che ne fanno un ospite prezioso.
Proprio perché intrapreso con uno scopo vago pur nella sua certezza, di quel viaggio Paddy non scriverà nulla se non quarant’anni dopo. Aveva sì tenuto un diario, ma parte era andato perso, e gli intrecci della vita avevano poi provveduto a dimenticare ciò che era stato ricordato.
Così, quando alla fine degli anni Settanta apparve Tempo di regali, che si fermava alle soglie dell’Ungheria, e solo dieci anni più tardi Between the Woods and The Water, dove c’erano Costantinopoli e la Grecia, di quell’Europa della metà degli anni Trenta tutto era andato distrutto e molti dei territori in cui si era mosso a piedi erano finiti nell’orbita delle dittature comuniste dell’Est. Eppure la sua memoria lo ricrea con incredibile freschezza e immediatezza e ci ridà il ragazzo di allora, pieno di gioia e di ottimismo nella vibrante diversità del mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.