Rai, il "partigiano" Villari è al lavoro: già convocata la commissione

Il senatore eletto alla Commissione Vigilanza: "Sono sereno e vado avanti". E La Russa dice: "Non si può chiedere di sfiduciarlo a chi lo ha scelto"

Rai, il "partigiano" Villari è al lavoro: 
già convocata la commissione

Roma Una passeggiata mattutina in Transatlantico, un caffè alla buvette di Montecitorio, una chiacchierata con Marco Pannella a palazzo San Macuto, sede della commissione di Vigilanza. Riccardo Villari, giunto al suo ottavo giorno da presidente che (apparentemente) nessuno vuole, si dice «sereno» e pare ben intenzionato a restare al suo posto. Anzi, si è messo alacremente al lavoro per recuperare i sei mesi perduti dalla Vigilanza nel tormentone su Leoluca Orlando: si occupa della par condicio nelle elezioni abruzzesi; evade le richieste accumulatesi per i programmi dell’Accesso; vuol insediare un sotto-comitato ad hoc.
Al cronista che lo trova al bar della Camera spiega che «vengo sempre a prendere un caffè qui nei momenti importanti, mi porta fortuna». Sulla sua vicenda, però, si è «imposto la consegna del silenzio», perché «in questi giorni mi sono visto attribuire diversi commenti e ora preferisco tenere un profilo basso». Nessuna ansia per il gran pasticcio al cui centro si ritrova: «La notte dormo tranquillo». Ma sugli appelli piovuti sul suo capo dalle massime istituzioni, si cuce la bocca: «Ho parlato con loro e conosco il loro giudizio».
Gli amici che ci hanno parlato, però, lo descrivono assai «arrabbiato»: «Ma vi pare possibile che un presidente di commissione, regolarmente eletto, debba apprendere dalle agenzie che è stato fatto un patto per sostituirlo con un altro?». Contro l’espulsione dal gruppo medita di fare ricorso. Un nuovo capitolo che il Pd si risparmierebbe volentieri, anche perché vuol dire stare ancora sulla graticola: Villari ha sette giorni a disposizione per fare il suo ricorso e chiedere che a pronunciarsi sia l’intera assemblea dei senatori democratici, e non il direttivo, dove pure si sono registrate alcune defezioni. La capogruppo Anna Finocchiaro ostenta sicurezza: «Se farà ricorso, si pronuncerà l’assemblea, e conosco i miei...». Nel frattempo, pregano nel Pd, «qualcosa maturerà». Ieri si sperava in una netta presa di posizione del Pdl, assicurando che dalle parti di Gianni Letta era arrivata la promessa che anche i gruppi di maggioranza avrebbero disertato la commissione finché Villari non avesse messo le proprie dimissioni all’ordine del giorno, come medita di fare il Pd. Invece, niente. Silenzio. Smentite di Gasparri: «Andremo». E qualche dichiarazione che incoraggia poco i democratici in ambascia, come quella del ministro La Russa: certo gli appelli di Fini, Schifani e Berlusconi sono «un fatto importante», ma «non si può chiedere ai gruppi che hanno eletto Villari di chiedere le sue dimissioni», dice il titolare della Difesa. Cavoli del Pd, dunque, se non riescono a convincerlo, con le buone o con le cattive. E cavoli del Pd se decide di star fuori dalla Commissione, dove la maggioranza sulla carta ha i numeri anche per votarsi l’intero Cda. Una grana alla quale si aggiunge quella sulla collocazione in Europa del partito, tema rilanciato ieri da Francesco Rutelli, che di fare entrare il Pd nel gruppo dei socialisti europei non ne vuole sapere.
Intanto Villari fa sapere che per la prossima settimana non sono convocate sedute della Commissione, e dunque niente dimissioni per altri sette giorni. Il povero Sergio Zavoli, presidente in pectore, vede declinare le speranze e l’entusiasmo per la nomination: «È una storia che discredita la politica. Ora bisogna pazientare», sospira.
A consolare il presidente eletto si presenta solo Marco Pannella. Il leader radicale annuncia di aver sospeso lo sciopero della sete, come gli chiedeva Villari «da medico», e lo incoraggia a tener duro: «La sua elezione ha fatto uscire il Parlamento da una situazione di illegalità.

Ora lui sta reagendo con dignità e fermezza, e non accetta di obbedire a ordini di stampo delittuoso e partitocratico». Che poi sarebbero quelli arrivati dal Pd (dove per tutta risposta inveiscono contro i radicali «e il momento in cui li abbiamo messi in lista, ci danno solo rogne») e dai presidenti delle Camere.

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