Gian Micalessin
da Haifa
La fascia di sicurezza è quasi pronta, ma la sicurezza resta lontana. L'esercito proclama di aver quasi sotto controllo una fascia di confine ampia otto chilometri, annuncia l'uccisione di tredici guerriglieri e la conquista di una ventina di roccaforti sciite, ma intanto i missili di Hezbollah fanno ancora strage di civili israeliani. Una gragnuola di katyusha colpisce per 150 volte il nord d'Israele uccidendo, in poche ore, otto persone e ferendone qualche decina. E sul confine l'esercito paga a caro prezzo la propria avanzata. I missili anticarro, l'arma più letale degli arsenali di Hezbollah, centrano un altro Merkava, bruciano vivi tre soldati.
Per Hassan Nasrallah, l'evanescente segretario generale di Hezbollah, riapparso ieri sugli schermi televisivi libanesi la resistenza dei suoi guerriglieri è un «regalo del Signore, un miracolo di Allah». Lo stesso segretario generale, nonostante l'aura religiosa attribuita alle capacità dei suoi uomini, ammette combattimenti sempre più ampi e minaccia di rispondere con nuovi e più devastanti attacchi missilistici. «Colpiremo a sud di Haifa - promette il segretario generale di Hezbollah - e se gli israeliani bombarderanno ancora Beirut i nostri missili arriveranno fino a Tel Aviv».
Il ministro della difesa Amir Peretz proclama, dall'altra parte, la volontà di conquistare tutti i territori a sud del fiume Litani, prima di cedere il passo ad una forza internazionale. L'obiettivo, mai ammesso ufficialmente e non ancora approvato dal Gabinetto di Sicurezza, potrebbe richiedere altre settimane di guerra e spostare molto in là sia il cessate il fuoco, sia lo schieramento di una forza internazionale nel sud del Libano. L'irriducibile voglia israeliana di conseguire una vittoria assoluta, devastante ed incontestabile è confermata dai volantini che chiedono l'evacuazione di tutti i quartieri meridionali della capitale libanese e dai nuovi martellanti bombardamenti su Beirut e sulla valle della Bekaa.
Sul fronte israeliano quel che più impressiona in queste ore tragiche è il sangue versato dalla popolazione civile. E non solo per considerazioni puramente statistiche o umane. Quelle otto vittime, dilaniate dalle schegge di katyusha tra San Giovanni d'Acri e Malot, dopo 23 giorni di guerra, diventano la concreta, tragica rappresentazione delle difficoltà di questo conflitto. Ieri mattina il comandante della difesa civile israeliana Yitzhak Girshon è ottimista. Convoca i giornalisti al kibbutz Sasa, non lontano dal confine, annuncia una situazione assai migliore rispetto ai primi giorni di guerra, garantisce pericoli ridotti al minimo per la popolazione. Altre fonti militari sottolineano l'imprecisione delle raffiche di katyusha degli ultimi giorni, l'incapacità di colpire con la stessa precisione di due settimane fa. «Successi indiscutibili», dicono le fonti, dovuti all'avanzata sul confine. Tra le 16 e le 17,30 una pioggia di 130 katyusha spazza via ottimismo e certezze. A San Giovanni d'Acri è proprio la sicurezza acquisita dai cittadini a causare la morte di quattro persone. Le sirene hanno appena smesso di suonare, un grappolo di razzi è esploso, un gruppetto di persone apre le porte del rifugio, torna in strada certo di averla scampata. Stavolta però le sirene e i sensori d'individuazione degli ordigni in arrivo non stanno dietro alle fitte, ripetute e successive raffiche di missili. Per quattro del frettoloso gruppetto, tra cui un padre e sua figlia, è l'appuntamento con la morte. Il missile esplode a pochi metri di distanza, li investe con un'ondata di schegge, li riduce in mucchi di carne insanguinata. In un'altra parte della città le ambulanze caricano cinque feriti in condizioni gravissime e li trasportano all'ospedale di Naharya. Uno muore qualche ora più tardi.
Pochi minuti dopo l'uragano di katyusha colpisce anche Malot, una cittadina a dieci chilometri dalla frontiera e a 15 dalla costa. Qui le tre vittime cadono sulla porta del rifugio. Il suono delle sirene li sorprende in auto, bloccano il motore, tirano il freno a mano, abbandonano il veicolo, corrono verso il seminterrato. Ma il destino ha già scritto la parola fine. Il missile colpisce l'entrata, li falcia nell'ultimo metro verso la salvezza.
Oltre il confine libanese, dove operano più di sei brigate per un totale di circa diecimila tra effettivi e riservisti, l'avanzata continua a rivelarsi lenta e sanguinosa. A Rajmin, villaggetto a quattro chilometri dalla linea blu, i Merkava della 188ma brigata carri sperimentano un'altra battuta d'arresto. A fermarli è l'ennesimo gruppetto di guerriglieri. A far la differenza sono, ancora una volta, la capacità di mimetizzarsi tra le case assediate e l'arma anticarro in loro possesso. Non un vecchio Rpg, inadatto alla blindatura di uno dei più protetti carri armati in esercizio, ma un sofisticato sistema d'arma filoguidato di fabbricazione russa, americana od europea. Il missile va a immediatamente bersaglio, uccide sul colpo due carristi.
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