Cinema

Il razzismo di casta può non avere colore ma ha una patria: gli Stati Uniti d'America

Un film di denuncia ispirato alla vita della scrittrice Isabel Wilkerson

Il razzismo di casta può non avere colore ma ha una patria: gli Stati Uniti d'America

Ascolta ora: "Il razzismo di casta può non avere colore ma ha una patria: gli Stati Uniti d'America"

Il razzismo di casta può non avere colore ma ha una patria: gli Stati Uniti d'America

00:00 / 00:00
100 %

Caste: The Origins Of Our Discontents si intitolava il libro con cui Isabel Wilkerson terremotò il mercato editoriale americano qualche anno fa, ai tempi del Live Black Matters scaturito dall'omicidio Floyd. Il suo filo conduttore era l'idea che anche nella società americana non fosse fondamentale il razzismo, ma la casta, ovvero una supremazia legata non tanto o non solo al colore della pelle, ma a un'idea di superiorità e/o di differenziazione gerarchica di natura sociale, ideologica, religiosa, sedimentatasi nei secoli con tutta una serie di codici prescrittivi e comportamentali atti a perpetuare una logica di dominante-dominato o, se si vuole, padroni e schiavi.

In India, notava la Wilkerson, a fronte di un unico colore della pelle, non solo era esistita e ancora esisteva una gerarchia castale, ma addirittura, al suo gradino più infimo, la denominazione di «intoccabili» per una categoria, quella dei dalit, relegata a una sorta di animalità... Il colore della pelle, osservava ancora la scrittrice, non spiegava l'antisemitismo, visto che gli ebrei perseguitati erano bianchi quanto i nazisti che li perseguitavano, così come nell'Estremo Oriente lo stesso discorso valeva per i giapponesi verso i cinesi e viceversa, a seconda di chi nei secoli si fosse ritrovato in una posizione di forza...

Isabel Wilkerson si era imposta al pubblico americano già a metà degli anni Novanta, quando un suo articolo su una inondazione nel MidWest le era valso un premio Pulitzer e dato il via a una fortunata carriera di scrittrice. Caste venne scritto però in un momento molto particolare della sua vita: da un lato la perdita a breve distanza della madre e del marito, quest'ultimo nemmeno cinquantenne, per un infarto; dall'altro l'ennesimo omicidio di un ragazzo di colore, avventuratosi di sera e per sbaglio in un quartiere residenziale abitato solo da bianchi... Per quanto qui fosse stato il colore della pelle ad aver scatenato la reazione omicida di chi aveva visto il suo aggirarsi come un pericolo, la Wilkerson lo prese a pretesto, un po' forzato, per la verità, per un discorso più ampio, castale appunto, una sorta di suprematismo identitario...

Origin, di Ava DuVernay, ieri in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, mischia la biografia della scrittrice (Aunjanue Ellis-Taylor sullo schermo) e le tesi del suo libro e ne tira fuori un film potente nelle immagini, nonché provocatorio nelle tesi e dove gli Statti Uniti si ritrovano non a caso nella parte degli imputati: non il simbolo della libertà e del diritto alla felicità sancito persino nella sua Costituzione, ma il Paese dello schiavismo prima, dell'apartheid poi, nato oltretutto dal genocidio più o meno pianificato dei cosiddetti nativi americani, i pellerossa, per intenderci. C'è di più: le stessi leggi prese inizialmente dal nazismo nei riguardi degli ebrei, si rifacevano di base al sistema segregazionista americano, il cui unico difetto, nell'ottica nazista, era il suo avere a che fare con la componente più povera, in tutti i sensi, della società Usa...

Come tutti i film di denuncia, e per di più girati da una regista afroamericana militante, quale Ava Duvernay, già autrice di Selma. La strada verso la libertà, anche Origin ha il suo difetto nell'appiattire nel concetto di casta ogni elemento gerarchico presente nella storia per come noi la conosciamo, e nel ridurre epoche e sistemi diversi a un unico comun denominatore.

Il suo punto di forza è nell'empatia che emana dall'interpretazione di Aunjanue-Ellis Taylor e nella intelligente ricostruzione di spaccati di vita americana e non solo.

Commenti