Politica

Il re nudo di Liberazione

Non condivido le sue idee, ma dico bravo a Piero Sansonetti che, dalla prima pagina di Liberazione, ha posto alla sua sinistra una domanda chiara: «Perché restiamo in questo governo?». Bravo perché ha rotto un clima di ipocrisia, grazie al quale la coalizione pur a brandelli, resta unita allo scopo di far sopravvivere Prodi, costi quel che costi. Bravo perché difende con franchezza le visioni con cui venne stilato il programma dell'Unione, visioni contro cui ormai si scagliano quasi tutti: Lamberto Dini (che non voterà la sanatoria per i precari nella pubblica amministrazione), Clemente Mastella e Antonio Di Pietro (che hanno affossato la commissione d'inchiesta sulle giornate del G8 di Genova), e soprattutto Walter Veltroni (che ha chiesto e ottenuto misure d'urgenza contro «i rumeni») e Romani Prodi e Giuliano Amato (che hanno subito accondisceso). Bravo perché ha capito che il Partito democratico, quando rivendica un ruolo maggioritario, mette in un angolo l'area antagonista, riservandole il solo compito di portare acqua al mulino. Bravo, infine, perché ha ricordato con semplicità alle leadership di Rifondazione, dei Verdi e del Pdci che esiste un elettorato per il quale il governo non è un tabù, ma lo strumento per realizzare una politica; e che si può anche stare all'opposizione.
Si può anche pensare che sia una delle tante provocazioni a cui Sansonetti ci ha abituati. Ma si sbaglierebbe. Il problema c'è da sempre nella storia della sinistra italiana. E la domanda alla fine è sempre la stessa. Se la pose Enrico Berlinguer quando il Pci ruppe la «solidarietà nazionale» con la Dc. Molti anni dopo lo fece Fausto Bertinotti, affossando nel 1998 il governo Prodi, proprio per sottolineare la divaricazione tra le istanze della gauche e l'Ulivo. Oggi la questione è sollevata da un giornale, che non dispone di voti in Parlamento, ma che si attribuisce direttamente un ruolo politico, interpretando quello che certamente è un sentimento diffuso tra chi aveva votato Prodi per abolire la legge Biagi, per affermare la verità dei no-global sul G8 di Genova. E chissà? Magari anche per ripristinare la priorità della lotta di classe. Un giornale che avverte il prezzo del compromesso - stare al governo rinunciando alle proprie visioni - e che risponde all'irruzione di Walter Veltroni sulla scena.
Al fondo c'è proprio la difficoltà, nella «sinistra sinistra», di fare i conti con la novità rappresentata dal Pd. Finora non ci sono state risposte all'altezza della sfida del segretario appena insediatosi. Al «potremo anche andare da soli» è seguito soprattutto imbarazzo. Al distillato continuo di scelte che appartengono al patrimonio neo-liberale - minore pressione fiscale, legge e ordine e così via - i ministri dell'area antagonista hanno risposto con blande ed inutili dissociazioni. Fino alla quasi benevola diagnosi di Bertinotti sul «governo malato», capace però di risollevarsi a forza di brodini.
È questo strano clima di resa che Sansonetti ha rotto con una domanda che in realtà contiene già la risposta. E cioè: meglio la fine di un'ipocrisia, meglio la chiarezza delle posizioni, meglio il conflitto aperto con Veltroni che il tran-tran della sopravvivenza.

A cui si può aggiungere a mo' di postilla: è meglio per l'Italia la separazione tra le «due sinistre» e la fine del loro ultimo matrimonio, ovvero il governo Prodi.
Renzo Foa

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