Il "Reality" di Garrone non convince il grande pubblico

L’ultimo film di Garrone ha incassato dignitosamente all’uscita nelle sale, ma ha deluso parte del pubblico

Matteo Garrone
Matteo Garrone

“Reality”, al cinema da quasi una settimana, ha registrato buoni incassi ma inferiori a quanto sperato ed i commenti fuori dai cinema al termine della proiezione non sono entusiasti. Per chi non lo sapesse, il film ritrae la progressiva perdita di senso della realtà da parte di un giovane padre di famiglia; lo fa a una distanza ravvicinata, scrutandone gesti, spiandone cambiamenti, come farebbe la telecamera di quello stesso reality che, generando potentissime aspettative, ha sconvolto l’equilibrio del protagonista.

Luciano (Aniello Arena) è un pescivendolo napoletano spronato dalle figliolette a sostenere il provino per la trasmissione “Il Grande Fratello”; una volta convocato per un secondo casting a Roma, si convince di essere tra i partecipanti prescelti. Nulla resterà più come prima. Aniello Arena, attore formatosi nel carcere di Volterra e vagamente somigliante a Totò, dà un’interpretazione limpida e convincente cui il film deve moltissimo. La regia sapiente di Garrone fa il resto, rendendo alcune scene dei veri gioielli e intessendo il film di rimandi simbolici interni (basti pensare alla ripresa iniziale e finale). E’ ovunque suggerito un raffinato e spassoso parallelismo tra divinità religiose ufficiali e nuovi idoli mediatici, tra promesse paradisiache certificate da sacre scritture e altrettante ufficializzate da regolamenti televisivi. Tra dramma e commedia, Garrone mette alla berlina gli effetti collaterali che certe illusioni possono avere sulle cosiddette anime semplici, come prima di lui avevano fatto Visconti con “Bellissima”, Scorsese con “Re per una notte” e Fellini con “Ginger e Fred”.

Eppure “Reality” non arriva a piacere a molti. Perché? I problemi di quest’opera sono essenzialmente legati al fattore tempo. In primo luogo, Il “Grande Fratello” è morto come genere televisivo da troppo poco per destare un qualche rinnovato interesse nel pubblico; quanto alla sua valenza sociologica, se n’è discusso per più di un decennio, oltre lo sfinimento. E’ un passato sterile. In secondo luogo, Garrone racconta in una pellicola di quasi due ore quel che sarebbe stato efficace fare in un cortometraggio. Non bastano estro e genio per trasformare un materiale così semplice in un corposo soggetto; se il film avesse scelto di esplorare le labirintiche profondità della mente non più presente a se stessa, ci sarebbe stato molto da mostrare; ma sposando l’estetica neorealista si rischia di allungare il brodo con una serie di cliché ammorbanti.

In definitiva i più attenti e appassionati coglieranno il simbolismo e gli autorevoli rimandi letterari e cinematografici, ma tutti

gli altri saranno orfani di stimoli e di riflessioni originali davanti a quest’opera e, ancora una volta, un film fresco di un grande premio a un Festival internazionale resterà muto e inerte per troppa parte del pubblico.

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