Paolo Giordano
da Milano
Bentornati Red Hot Chili Peppers, avete un album nuovo e quindi siete sopravvissuti all’ennesima crisi interna.
«Se si riesce a crescere e a maturare, le tensioni sono sempre positive. Ora abbiamo capito che stare insieme come band è un dono e c’è anche una certa magia cosmica che noi riusciamo a interpretare insieme».
Infatti ora esce il ciddì Stadium Arcadium che ha addirittura due dischetti: 28 canzoni in tutto.
«La nostra è chimica creativa, abbiamo creato un ambiente positivo per andare avanti. Ci siamo ritrovati in una stanza a cercare l’ispirazione, ci incoraggiamo, siamo ritornati ad essere una bella squadra».
Però giocate su due campi: il primo disco ha come sottotitolo Jupiter. L’altro si chiama Mars. Che cosa c’entrano Giove e Marte con il rock?
«Giove è l’intelligenza creativa, Marte rappresenta la guerra e queste due personalità nel nostro gruppo si sposano benissimo».
A esser precisi, in più di vent’anni i Red Hot Chili Peppers si sono sposati con tutto e specialmente col suo contrario. Quando è uscito il loro primo album, nel 1983, loro erano solo i californiani pazzoidi che non si sapeva cosa volessero: il volume era spaccatimpani ma i suoni sembravano quelli di George Clinton e dei Funkadelics, funk cioè, e bello tosto. Hanno iniziato a carburare, insomma, un concerto e un disco dietro l’altro finché non hanno grippato lasciando pure un chitarrista per strada (Hillel Slovak, overdose). Poi nel 1991 con il ciddì Blood sugar sex magik questi quattro quarantenni sgangherati si sono rivelati superstar (Under the bridge, ricordate?) mescolando il mescolabile - rock, rap, pop, funk e punk - e da allora sono il manifesto del chissenefrega: riempiono gli stadi rock cantando canzoncine tipo Scar tissue come due anni fa al Meazza di Milano ma piacciono anche alla critica, vivono a cinque stelle ma suonerebbero pure in un centro sociale. Insomma, ce ne fossero. E anche questo nuovo album - che si presenta con furore lisergico ma gode di un’insospettata estasi pop - farà come al solito: prima reazione attonita della critica, poi standing ovation del pubblico e infine benedizione globale, evviva.
Non a caso siete amici del folle regista Gus Van Sant, quello che ha rifatto Psycho di Hitchcock scena per scena.
«Sì, ha scattato le foto dell’album ma non è la prima volta che lavoriamo con lui. Siamo amici da quindici anni, dai tempi di Blood sugar sex magik».
Andiamo per ordine: l’album inizia col primo singolo Dani California, che è un divertissement semipop. Ma dopo ecco Snow (Hey oh) che sembra evocare la cocaina.
«Ma figurarsi se quello è l’argomento. La canzone parla proprio di neve, che copre lo sporco e rigenera. Comunque di sicuro siamo stati molto fortunati. Tante volte ci siamo ritrovati in condizioni disastrose ma poi siamo sempre stati in grado di ricominciare».
Qualche volta lo avete fatto a modo vostro: ad esempio apparendo sul palco coperti solo da un calzino sui genitali. E ora il cantante Anthony Kiedis, che ha 43 anni, gira il mondo con una modella di 19.
«Ma anche quando sembravamo una band dannata, la musica per noi è sempre stata sacra, una sfida da affrontare con rispetto per crescere sia come musicisti che come essere umani».
Risultato?
«Abbiamo tantissime influenze diverse, dal jazz alla classica. E se dessimo retta al chitarrista John Frusciante che adesso ascolta solo Wagner e Stravinskji, potremmo anche diventare un quartetto classico».
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