Controcultura

Refn esaspera ma va preso a scatola chiusa

Il pastiche tra cinema di genere e autorialità si porta dietro un fascino strepitoso dai tempi di Lynch, Cronenberg, Von Trier, fino all'apoteosi di Tarantino. Lavorando dunque sugli stereotipi e i meccanismi consolidati della finzione narrativa, altri registi di generazione più recente si sono per così dire «attaccati» alla lezione dei maestri, sviluppandola a livelli parossistici. E il risultato finale resta in bilico così come la posizione della critica, divisa tra il plauso entusiasta e la tentazione di una solenne stroncatura. Quando poi si parla di serie tv e non di cinema, la questione si fa ancor più complessa: il diluire la storia in molti episodi è ben diverso dall'esaurire la questione in due ore secche. Ad esempio, avevamo salutato con entusiasmo la prima stagione di American Gods, la seconda invece non regge il passo, troppo stiracchiata, magniloquente e, soprattutto, esasperante per lentezza.

Premessa necessaria per salutare il debutto televisivo di Nicolas Winding Refn, il regista danese classe 1970, considerato tra gli autori di spicco del cinema europeo che, dopo una lunga gavetta e parecchi fiaschi commerciali, si rivela nel 2011 con Drive (premio per la miglior regia a Cannes) anche grazie alla gelida interpretazione di Ryan Gosling. Ottimo film davvero, ma nei successivi (Solo Dio perdona e l'horror The Neon Demon) tornano i «difetti» di sempre: Refn si prende troppo sul serio, gli piace far notare quanto è bravo nella tecnica a discapito della storia, mette a dura prova la pazienza dello spettatore, incurante come tutti gli esseri geniali delle regole dello spettacolo.

Too Old to Die Young, dieci puntate su Amazon Prime, ha innanzitutto un titolo bellissimo, molto attrattivo per chi ama un certo tipo di fiction iperrealista e sconclusionata. Inutile pretendere da Refn un ravvedimento, prendiamolo per quel che è, il più assurdo discepolo di David Lynch (il Lynch più strampalato e meno riuscito però), e sospendiamoci dalla realtà per il tempo che serve. Inutile complicarsi la vita nel cercare connessioni logiche più di tanto nella storia della doppia vita del detective Martin, poliziotto e giustiziere. Molto meglio accontentarsi del suo spiccato pittoricismo, i silenzi sono più importanti delle parole, gli sguardi fissi in camera contano più dell'azione (atipico per quello che di fondo vorrebbe essere un thriller). Per Refn l'estetica è prima di tutto, la sua raffinatezza nel rappresentare la violenza con movimenti di macchina da scuola di cinema va ancora una volta verso un prodotto super-raffinato eppure privo di anima. Dieci episodi, tutti oltre l'ora, sono soprattutto una richiesta di fedeltà e per il vero appassionato arrivare in fondo sarà difficilissimo. Qui invece ci troviamo a metà strada, ancora incerti se ritenerlo un genio o un insopportabile presuntuoso.

Certo è che metterci alcuni minuti per rispondere al telefono o altrettanti senza dire una parola fanno perdere la fiducia anche al più scatenato dei fans.

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