Il regista esagera un tantino e si paragona a Caravaggio

RomaStanno tutti fuori come balconi, quando va in scena l’operazione marketing intorno a La prima linea (dal 20 nelle sale), il film di Renato De Maria, sul quale si fa chiasso da tempo, perché parla dei nostri anni di piombo, materia che scotta a ogni ora politica e della quale si sa poco e male. «Che palle!», sospira, occhi al cielo, Sandro Petraglia, sceneggiatore (con Ivan Cotroneo e Fidel Signorile) d’un decoroso docudrama, liberamente ispirato a Miccia corta, il libro del terrorista pentito Sergio Segio, interpretato da un pensoso Riccardo Scamarcio, qui occhi in tinta con pulloverini, cappottini, dolcevita, sciarponi anni Settanta, nonché laguna veneta e «ferro» oliato (nel jeans) color carta da zucchero. Un colore che determina il look, al punto da tingere gli improbabili giubbetti antiproiettile, indossati da Segio-Scamarcio, e con fiocchi a stringerli di lato...
«Avrei preferito girare in un altro clima. Dio sa come avrei girato, se non ci fossero state le polemiche! Un artista decide di fare un film e non gli viene concesso. A Caravaggio non fu impedito di dipingere, a tela bianca», commenta De Maria, che va per certi mari, però non vuol prendere certi pesci, tipo l’atmosfera ostile che, durante la lavorazione del film, ha circondato il set milanese. Ma basta guardare le rattristanti immagini di repertorio della strage di Piazza Fontana e dei funerali delle vittime di quei balordi di Prima Linea, nella città ambrosiana, per comprendere come mai circolasse un’aria poco friendly (e gli inserti sono l’unica cosa veramente interessante del film). «L’Italia è un paese di destra e cattolico: la sinistra deve sempre giustificarsi, mentre la destra è arrogante. Perché dovremmo essere brutti e storpi, nel film? Susanna Ronconi, che ho incontrato, e Sergio Segio sono due persone bellissime. Conta se le nostre interpretazioni interessano, al di là delle facce. Il resto è nulla», sentenzia la Mezzogiorno, in difesa dietro gli occhialini da vista. Nel film lei, «la nostra Giovanna», come ha affermato Napolitano al Quirinale, premiandola, incarna Susanna Ronconi, la donna di Segio da lui fatta evadere, il 3 gennaio 1982, dal carcere di Rovigo. «Da attore, mi pongo solo un problema: riuscirà il mio personaggio a creare appeal? Se non si scatena un processo d’identificazione, il film è noioso», osserva Scamarcio e, senza volerlo, fa centro e autogol.
Perché La prima linea risulta soprattutto noioso (l’ex sessantottino Goffredo Fofi, in proiezione, sbadigliava e guardava l’ora di continuo) in quel mettere in fila, a mo’ di sorvegliato compitino di storia, fatti terribili (l’uccisione degli inermi Emilio Alessandrini, Guido Galli, Francesco Rucci e William Vaccher, le cui vedove e orfani sono tuttora, giustamente, risentiti) e circostanze infami (la rottura dei rapporti «verticali» con famiglie e amici, da parte dei terroristi), senza trasmettere emozioni. Puro stile Dardenne, entomologico, cioè, visto che i furbi fratelli Jean-Pierre e Luc producono il film con Occhipinti, guardando alla Francia della dottrina Mitterrand? «Se il film fa discutere, vuol dire che il cinema, in Italia, è cosa viva. Guardo al bicchiere mezzo pieno, da ottimista», ci dice Luc Dardenne, aspettandosi il botto Oltralpe, dove, Battisti ospite per decenni, circolerà curiosità per i marxisti immaginari di De Maria, giudicato «coraggioso». «Le polemiche ci possono stare, né mi sconvolgono.

Volevo fare un film crepuscolare, che partisse dal fallimento di Prima linea, dalla sua fine», mette le mani avanti il regista, marito di Isabella Ferrari e autore al quarto film. «Con Segio, il cui libro ho amato subito, ho avuto un rapporto stretto da subito». Troppo stretto, magari: l’ex terrorista, adesso, è tra i molti, che attaccano La prima linea.

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