Il regista stravolge Rossini, il pubblico fischia E a salvare la «Zelmira» non basta il bel canto

Pesaro Ovazioni e fischi. Deliri e «buuuuh!». Se mai ci fu un fallimentare successo - una serata, cioè, che si sia schizofrenicamente divisa fra trionfo e fiasco - questa è stata la prima della Zelmira che, domenica sera a Pesaro, ha celebrato il trentennale del più prestigioso festival lirico italiano. Accanto ai frenetici applausi tributati a star del calibro di Juan Diego Florez o Gregory Kunde, e a divi emergenti quali Kate Aldrich e Marianna Pizzolato - autori di prestazioni d’assoluta eccellenza - il pubblico s’è infatti scatenato contro le fumose e indecifrabili trovate del regista Giorgio Barberio Corsetti, responsabile d’una messinscena inqualificabile. E quando costui s’è presentato al pubblico, le acclamazioni si sono tramutate in fischi.
Andiamo per ordine. Zelmira non è opera facile. Dotata d’un libretto sbilenco, è musicalmente disuguale, e dura troppo. A peggiorare le cose ci si è messo lo scrupolo filologico che, talvolta, è nemico giurato dello spettacolo: 20 minuti di musica in più, che Rossini stesso tagliò e che invece qui è stata ripristinata, col risultato di allungare la serata a 210 interminabili minuti. Come diceva Verdi, il pubblico tutto sopporta tranne la noia: e a rendere insopportabile questa altrimenti magnifica Zelmira ha provveduto Barberio Corsetti. Innanzitutto immergendola per tre quarti in un buio talmente pesto da appesantire le palpebre ai già provati fra gli spettatori; quindi imponendo ai cantanti un’immobilismo tale da sfociare nella più soporifera delle staticità; infine dotandola d’invenzioni risapute (i soliti militari, dai Caschi blu dell’Onu ai «tupamaros» stile sudamericano) quando non addirittura inspiegabili, come lo specchio inclinato, che riflettendo il pavimento sotto i piedi dei cantanti, svelava un sottosuolo popolato di misteriosi figuri. Il risultato era peggio che incomprensibile: nel costringere il pubblico a raccapezzarcisi, diventava anti-teatrale. Un vero delitto, pensando alla meraviglia del cast.

C’è voluta insomma tutta l’abbagliante arte di Florez, insuperabile nella cavatina del primo atto, la magnifica intensità della Aldrich e della Pizzolato, splendide nel duettino «Perché mi guardi e piangi», l’eccellenza della direzione orchestrale del grande Roberto Abbado, per controbilanciare i guasti di una messinscena più che punitiva. Inutile.

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